Soldati caduti e more ai lati delle vie - Sheki, Azerbaijian
Dove si scopre un po' di quel casino che è l’Azerbaijan
Azerbaijan, la terra del fuoco. Ha un suono cattivo, o forse è solo una percezione. Un paesino stretto tra i monti del Caucaso e il Mar Caspio che fa strage di armeni mentre il suo oro nero scorre dritto dritto nelle casse europee.
Azerbaijan, chi mai ci andrebbe in viaggio, in agosto poi, con il caldo che fa? Cosa c’è da vedere? Che lingua parlano? Chi sono?
Azerbaijan, che ha ancora – ancora! – le frontiere di terra e di acqua chiuse per il covid, nel 2025, ma la verità è che è circondato da nemici: la Russia a Nord-Est, l’Armenia che copre tutto il confine occidentale, gli odiati iraniani a sud. Solo i georgiani si salvano, più o meno. Poi c’è il Naxçıvan, la repubblica autonoma distaccata dalla Madrepatria, stretta tra i due grandi avversari e impossibile da raggiungere se non per via aerea.
Che posto è?
Ciao, sono Alessandra! Viaggio spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia. Amo viaggiare a Oriente e esplorare il Caucaso rimane una delle esperienze più stimolanti.
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Al contrario dell’immaginario comune, ha un territorio prevalentemente montuoso e una fertile pianura attraversata da fiumi. Il litorale, invece, è secco, desertico, e la penisola di Absheron su cui sorge la modernistica Baku è adagiata su un tesoro di petrolio.
All’interno dell’Azerbaijan si trova la triste e contesa regione del Nagorno-Karabakh, teatro di scontri sanguinari negli scorsi tre decenni, in particolar modo negli ultimi due anni in cui gli armeni sono stati isolati dall’Armenia vera e propria, privati dei viveri e poi uccisi in massa o costretti a fuggire.

Cosa sono, gli azeri? Europei o mediorientali? O forse turchi? O nessuno tra questi?
“Eravamo un gruppo molto eterogeneo, noi quaranta scolari che stavamo seguendo una lezione di geografia in un caldo pomeriggio nel Liceo Umanistico Imperiale Russo di Baku, in Transcaucasia: trenta maomettani, quattro armeni, due polacchi, tre settari e un russo. Finora non avevamo riflettuto molto sulla straordinaria posizione geografica della nostra città, ma ora il professor Sanin ci stava dicendo nel suo modo piatto e poco ispirato: "I confini naturali dell'Europa sono costituiti a nord dal Mare Polare del Nord, a ovest dall'Oceano Atlantico e a sud dal Mediterraneo. Il confine orientale dell'Europa passa attraverso l'Impero russo, lungo i monti Urali, attraverso il Mar Caspio e la Transcaucasia. Alcuni studiosi considerano l'area a sud delle montagne caucasiche come appartenente all'Asia, mentre altri, vista l'evoluzione culturale della Transcaucasia, ritengono che questo Paese debba essere considerato parte dell'Europa. Si può quindi dire, figli miei, che è in parte vostra la responsabilità di decidere se il nostro paese debba appartenere all'Europa progressista o all'Asia reazionaria".1
Questa citazione è tratta dal bellissimo romanzo d'amore ambientato in una Baku pre-sovietica, dove diverse etnie condividono lo stesso territorio. Nino & Ali è una storia verosimile in cui i russi e i georgiani – cristiani – si definiscono europei, vestono all’europea e “mangiano seduti”, come si rimarca qualche pagina più in là, mentre gli azeri – musulmani sciiti – sono vicini agli usi e ai costumi della Persia e “mangiano a terra a gambe incrociate.” Gli armeni erano già bistrattati, visti come ricchi avari e spietati. Il romanzo di Said Kurban, oltre a far sospirare sulle disavventure della bella Nino, nobile georgiana, e il principe azero Ali, ci mostra un universo che è davvero esistito agli inizi del secolo scorso, quando i tentacoli della Russia Zarista si erano già allungati su mezzo mondo, ma un mondo con confini molto blandi dove popolazioni differenti vivevano insieme. All’epoca, capitava che poveri contadini trovassero all'improvviso giacimenti di petrolio e si arricchissero in poco tempo rendendo la remota, secca Baku ciò che è ora: un luogo di boutique alla moda e grattacieli di vetro di proprietà di petrolieri, businessmen e politici. Si oppongono agli invasori russi, ma anche ai loro fratelli turchi con i quali hanno in comune la lingua e le origini, poiché gli Ottomani sono sì musulmani, ma sunniti. Bisogna schierarsi con essi contro gli zaristi o con questi ultimi con cui, oramai, siamo diventati tutt’uno?
Il romanzo termina con l’arrivo dei Bolscevichi che fanno strage di tutti coloro che si oppongono al nuovo ordine mondiale, non importa se europei, asiatici o turchi. E poi, non molto tempo dopo, arrivò Stalin che con la sua scure iniziò a tranciare i territori e a chiamarli “Repubbliche”, lasciando persone di un’etnia in un paese con un nome diverso e dando adito a quei conflitti che continuano dagli anni ‘80 a oggi. Un esempio, appunto, ne è il Nagorno Karabakh, un exclave, tra l’altro molto fertile, di armeni in pieno territorio azero. E tale era anche quando furono trasferiti lì nel XIX secolo dalla Persia e dall’est della Turchia per creare una zona cuscinetto lungo i confini sud dell’Impero Zarista a seguito delle varie guerre contro l’Impero Ottomano e la Persia. Entrambe le nazioni reclamano quel fazzoletto di terra, ed entrambe possono vantarne dei diritti.
Una cosa inquietante in Armenia sono i ritratti dei soldati sulle facciate delle case, i figli della famiglia che ci vive, morti nelle guerre etniche. La maggior parte è giovanissima. In Azerbaijan, lungo le vie interurbane, si susseguono per chilometri e chilometri pannelli con ritratti di altri giovani in uniforme da combattimento, caduti nelle stesse guerre.
Vanno avanti da decenni: a Sumgait, a trenta chilometri da Baku, nel 1988 ci fu il primo pogrom di armeni, nonostante le due etnie avessero vissuto per anni in armonia. Successe a febbraio, quando il consiglio regionale del Nagorno Karabakh trasferiva la sovranità sul suo territorio all’Armenia e a Sumgait ci furono delle manifestazioni. Le autorità sovietiche, che inoltre avevano sobillato l’odio incolpando un’etnia per i problemi dell’altra, si intromisero per calmare le acque solo dopo tre giorni e tre notti di pulizia etnica, con la stessa dinamica di Osh e Uzghen.
Da quel momento, gli azeri in Armenia tornarono in Azerbaijan, mentre gli armeni in Azerbaijan tornarono in Armenia, lasciando un enorme buco lì dove c’erano artigiani e forza lavoro utile a Baku, che si riempì di contadini azeri. Non fu di certo una transizione pacifica e l’odio e i massacri sono andati avanti fino ad oggi a cadenza regolare, a scapito soprattutto dagli armeni, abbandonati dall’amica Russia impegnata su altri fronti, tipo in Ucraina. Lo scorso marzo, però, i due Paesi sono arrivati a un accordo di cessate il fuoco, con l’Armenia che ha riconosciuto all’Azerbaijan la sovranità sul Nagorno-Karabakh e di altri quattro villaggi lungo il confine.

Samaliot, samaliot!
In Azerbaijan avevamo provato ad arrivarci via terra dalla Georgia nel 2022, ma una volta giunte alla frontiera di Lagodekhi, siamo state rimandate via “Samaliot, samaliot”. La guardia faceva con la mano il gesto di un aereo che vola. “Tornate a Tblisi e prendete un aereo per Baku.”
L’estate scorsa, invece, abbiamo attraversato il deserto che separava il Karakalpakstan, in Uzbekistan, da Aktau. Dopo 27 ore di viaggio in un treno così assurdo da sembrare un film d’altri tempi, siamo approdate sul Mar Caspio nella strana città petrolifera senza vie, dove avremmo voluto imbarcarci su una nave cargo per l’Azerbaijan. Nulla da fare “samaliot, samaliot!” Le frontiere di acqua e terra non aprono.
Sheki (Şəki in azero) è una cittadina a cinque ore da Baku, nell'Azerbaijan nord-occidentale, incastonata ai piedi dei monti del Grande Caucaso. A soli 14 km a nord si trova il confine russo, mentre la Georgia è a breve distanza, il che la rende un crocevia di culture e tradizioni. Stranamente, si può raggiungere con un comodo e pulito autobus, che dopo settimane e settimane di marshurtke ci sembra un miracolo. Questo piccolo borgo tra l’Europa e l’Asia non è di certo vittima del turismo di massa: chi ci arriva fin lì? Eppure Sheki vanta una storia millenaria che affonda le radici in epoche antiche, grazie alla sua posizione strategica lungo la Via della Seta.
Il suo passato glorioso è ancora visibile nel centro storico, un agglomerato di strade di pietra tra case di campagna, campi e boschi. La città moderna appare piuttosto anonima, ma dopo il lungo viaggio passeggiamo un po’ per sgranchire le gambe e mangiare un boccone. Poi, basta salire sulla collina circondata dai monti del Caucaso ammantati di foreste per immergersi in un'atmosfera fiabesca: caravanserragli ben conservati, vicoli lastricati, botteghe artigianali e il magnifico Palazzo dei Khan, l’orgoglio di Sheki. Costruito nel XVIII secolo, è noto per le sue straordinarie vetrate colorate, realizzate con la tecnica del shebeke, cioè senza l’uso di chiodi o colla. Un tempo il vetro proveniva dalla mia amata Venezia, a testimonianza dei legami commerciali con l’Europa. All'interno, le pareti affrescate narrano storie epiche e scene di caccia, mentre i soffitti decorati rivelano l’eleganza dell’arte persiana e caucasica. È vietato scattare fotografie, come in molti luoghi dell’Azerbaijan, tra cui la metropolitana. Sembra un’ossessione, qui. Fuori, dinanzi al portone principale, ci sono due querce vecchie di cinquecento anni.
Chi avrebbe mai pensato che l’Azerbaijan fosse così? Dopo tanta aridità uzbeka, passeggiare per Sheki sembra un’esperienza paranormale, fosse anche solo per tutta la natura, i rovi di more ai lati delle vie, le case in mattoni con tetti in legno, le botteghe che vendono dolci locali come lo Sheki halva – un impasto di tahina, zucchero e frutta secca che varia da paese a paese in tutto il Medioriente– e le antiche moschee immerse nel verde delle colline circostanti. Abbiamo esplorato i vicoli del centro, vivacizzati da un’umanità autentica: bambini che giocano a rincorrersi, galline che razzolano nei cortili e anziani seduti fuori dalle case a sorseggiare il çay, il tè nero.
Per godere del panorama, ci siamo rifugiate spesso – sempre – al ristorante Gagarin, un luogo perfetto per rilassarsi con una birra fredda e un buon piatto tipico, mentre la vista spazia dal centro storico alle montagne che avvolgono la città indorata dai colori del tramonto. Il richiamo del muezzin per la preghiera ṣalāt al-maghrib si spande nella vallata, mescolandosi al nostro personale richiamo da parte del proprietario della casa in affitto: “Ma che fate lì, da sole? Venite qua, vi presento i miei amici venuti dalla Russia. Brave, bevete, bevete, questa vodka è fatta in casa!”
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Girovagare per la Georgia nel 2022 fa comprendere tutta la tragicità che la Russia ha portato ai deboli Paesi un tempo a lei dipendenti. Sia l’Ucraina che la Georgia fecero parte dell’impero zarista prima, dell’Unione Sovietica poi e oggi condividono una storia di invasioni, uccisioni e il forte desiderio di aderire all’Unione Europea.
Le due cime
“Per me i russi non sono altro che dei turchi bianchi”, commenta con espressione disgustata Gaghin, il gestore dell’ostello di Yerevan. Ha due sorelle a Kharkiv, sotti i bombardamenti, e la malinconia ereditaria degli armeni. Grande popolo, quello armeno. Occupavano una vasta fetta del Caucaso meridionale che andava dal Mar Caspio ai confini della Cappa…
Said, Kurban, Ali & Nino, The Overlook Press, Peter Mayer Publishers, Inc, New York, 1970, Kindle Edition. Traduzione mia.
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