Viaggiare via terra significa attraversare frontiere e attraversare frontiere significa immergersi in un luogo dove non esistono più “io” e “te”; le lingue, separate, si fondono in una sola e non importa in quale dei due idiomi si parli, ci si capisce comunque.
Attraversare frontiere significa accompagnare orde di umanità con borse e sacchetti di grandezze diverse, di solito colorati, pieni di qualsiasi cosa sia commerciabile. La maggior parte di questa umanità sembra avere più di cinquant’anni, ha una conformazione tondeggiante e il capo coperto. Gli uomini fumano, tutti, le donne trascinano le sporte con aria stanca. Si somigliano sempre, in qualsiasi punto del mondo essi siano. Le eccezioni si trovano nei giovani smilzi con il berretto e il trolley pieno di chissà cosa. Sono lì sulla corda del funambolo a commerciare, contrattare, litigare. Si siedono stanchi in fila alla dogana, ti urlano contro se pensano che tu voglia passargli davanti, poi discutono con la polizia per le sigarette di contrabbando.
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Non vedi l’ora di uscire da quel fiume di umanità e di raggiungere la tua meta, invece devi stare in piedi davanti al gabbiotto di una guardia che ti chiede “dove stai andando?” “perché?” “dove andrai dopo?” “dove sei stata?” e intanto sfoglia piano il tuo passaporto, analizzando ogni timbro con aria svogliata. Ci mettono una vita: pare che si divertano a farti stare lì.
“Guarda nella telecamera” e in quel momento sai che non hanno nulla in contrario al farti entrare nel loro Paese. Meno male. Cerchi di rimanere serio, ma non ce la fai: o sei stufo dell’attesa oppure ti viene da ridere pensando a dove sei, un punto a caso dell’Asia Centrale, circondato dal cicaleccio di chi compra e di chi vende da un lato o l’altro del confine. Ogni volta sei lì con il cuore in gola, perché sai che potrebbero trovare un cavillo, qualcosa per respingerti. E mi è capitato anche quello un paio di volte. Quante dogane di terra ho passato? Tutto l’Est Europa, più volte, anche i Balcani e la Turchia (spesso, troppo spesso), il Caucaso, su e giù tra i vari Paesi, Ceuta, il Marocco. Ora mezza Asia Centrale. Sono stanca, il doganiere mi tiene almeno un quarto d’ora che sembra un’ora. Passo. Tengono Alessia ancora di più. Provo a sedermi, a cercare un angolino, ma mi mandano via. “Non vedi che stiamo lavorando? Vai ad aspettare fuori.” Sono in Uzbekistan. Alla fine arriva anche Alessia.
Da Almaty in Kazakhstan abbiamo raggiunto Sarygash, al confine con l’Uzbekistan, su un sovieticissimo treno notturno. Per diciotto ore la steppa è scorsa oltre il finestrino, monotona. Al tramonto si è colorata di rosso e arancio e qui e lì mandrie di cavalli selvatici brucavano l’erba. Poi è scesa la notte, buia in quella landa senza fonti di luce. Dai finestrini aperti entrava l’aria frizzante e una mezza luna illuminava a fatica quell’oscurità altrimenti totale. Mahmud, il capotreno, ci sorrideva pronunciando parole italiane a caso, come “spaghetti bolognese” e “Celentano”. Il vecchio samovar bianco dispensava acqua bollente per gli spaghetti istantanei e il tè. Dividevamo lo scompartimento con un ragazzo con un trolley pieno di t-shirt da vendere e un signore riservato che armeggiava con il suo kit da viaggio: saponetta, rasoio, tazza. Ho dormito per otto ore filate, profondamente, accompagnata dal tu-tum delle rotaie che battevano come un nostalgico cuore sovietico. Ogni tanto il treno sembrava volare via dalle rotaie per gli scossoni.
La mattina seguente, ci siamo svegliate con lo stesso paesaggio di saxaul. Solo verso il confine sono comparse dapprima delle fattorie e poi una squallida città di edifici in calcestruzzo. Da lì siamo montate in un taxi che per meno di sei euro ci ha portate alla dogana. L’abbiamo attraversata a piedi e, al di là, abbiamo preso un autobus (0,08 cent) in direzione Tashkent. Il capolinea del bus urbano è la fermata della metropolitana Shariston, sulla linea verde, tramite la quale si possono raggiungere tutti i punti della città. Dalla parte uzbeka della frontiera si trovano anche i taxi, ma è più semplice pagare il bus con la carta o con il telefono che trovare un bancomat funzionante.
“I bancomat qui al confine sono fuori servizio al momento a causa di alcuni scontri etnici avvenuti qualche giorno fa” ci dice un passeggero. Come quasi tutti in Uzbekistan, è curioso e ci bombarda di domande prima di invitarci a mangiare pilaf, o plov, il piatto nazionale. È kirghiso, vive in Kazakhstan e sta attraversando l’Uzbekistan per raggiungere Osh nella valle di Fergana in Kirghizistan. “È normale, tutti i paesi hanno scontri fra etnie. Da voi non è così?”
Il luogo dove negli ultimi trentaquattro anni sono avvenuti più scontri è proprio la Valle di Fergana, luogo mitico già solo per il nome. Il nostro nuovo amico viene proprio da lì, uno scrigno fertile racchiuso tra i monti e che venne diviso senza pietà da Stalin: una parte all’Uzbekistan, una al Kirghizistan e una al Tajikistan, tranciando un mix etnico che aveva collaborato per secoli. I disordini etnici degli ultimi decenni sono diventati episodi frequenti. Famosi sono “i fatti di Osh”, nella parte kirghisa della valle di Fergana.
“Stan” significa terra, quindi Uzbekistan significa terra degli uzbeki, Kazkhstan terra dei kazaki eccetera. Tuttavia non è affatto così perché i confini furono tracciati nel 1924 in modo grossolano e tuttora ci sono zone di un paese con un’alta concentrazione di un’etnia “straniera” (che straniera non è per niente, visto che vi abitano da secoli). Nel corso della storia, in Asia Centrale nessuno si è mai chiesto chi appartenesse a quale etnia: i nomadi si dividevano in clan mentre i sedentari in regni e khanati. Tutto qui. Dalla caduta dell’URSS, i governi sempre più nazionalisti e, in alcuni casi, isolazionisti, hanno accentuato le differenze tra popoli che avevano sempre vissuto in armonia.
Alcuni fra gli scontri più violenti avvennero nell’estate del 1990. Tra il 4 e il 7 giugno la città di Osh, a maggioranza uzbeka e di tradizione islamica, fu teatro di violente battaglie tra le comunità uzbeka e kirghisa. Pare che la scintilla fosse una disputa legata alla terra: l'amministrazione comunale aveva deciso di costruire case popolari per i nuovi immigrati kirghisi, arrivati per lavorare a Osh, su un terreno lungo la strada dell’aeroporto che apparteneva a una comune agricola uzbeka, e la decisione suscitò forti proteste. Il 4 giugno, due folle – una uzbeka e una kirghisa – si confrontarono sul terreno conteso. Soltanto una decina di miliziani, mandati a riportare l’ordine, spararono qualche colpo in aria e poi si ritirarono, lasciando che i conflitti degenerassero. Ci furono i primi morti, per lo più kirghisi. Nei giorni successivi, bande di giovani kirghisi risposero con attacchi di vendetta contro le comunità uzbeke della regione, compiendo massacri. Uno degli episodi più sanguinosi si verificò a Uzghen, dove la violenza raggiunse il culmine. Secondo Tiziano Terzani, che provò a intervistare il sindaco di Osh nel 19911, quest’ultimo insinuò che, al momento degli scontri, non vi fosse alcuna presenza militare nella città, poiché erano stati inviati altrove. Ciò sollevò sospetti su una possibile complicità o negligenza da parte delle autorità, che avrebbero lasciato di proposito campo libero agli aggressori kirghisi giunti da fuori. La caccia agli uzbeki durò due giorni e due notti, durante i quali le vittime furono trucidate per strada, nei campi e nelle case, poi date alle fiamme. Nessuno intervenne per fermare la carneficina. Fino alla divisione dell’Asia centrale in cinque repubbliche, le due comunità erano state economicamente integrate: gli uzbeki, di tradizione agricola e artigianale, e i kirghisi, pastori e produttori di lana e tappeti, avevano da sempre vissuto in simbiosi. Tuttavia, dopo il 1924, all’improvviso mezzo milione di uzbeki si ritrovò nell’enclave all'interno della Repubblica Kirghisa, mentre un altro milione rimase in Tagikistan. Con la perestrojka e il crescente dibattito sull'indipendenza delle repubbliche sovietiche, le tensioni etniche esplosero. Secondo alcuni, il Partito Comunista avrebbe manipolato il conflitto razziale per riaffermare il proprio potere, fomentando rivalità e diffondendo false notizie di massacri per inasprire l’odio tra le due comunità. Ciò avrebbe avuto come obiettivo il consolidamento della posizione del partito, sempre più debole negli ultimi anni dell’Unione Sovietica.
Un’altra ondata di contrasti molto violenti avvenne nel giugno del 2010. I dettagli degli eventi rimangono confusi, frammentati dai racconti contraddittori di testimoni oculari. Pare che la notte del 9 giugno fosse scoppiata una lite in una sala giochi 24 ore di Osh tra un kirghiso e un uzkeko per una questione di soldi. Il litigio degenerò e gli uzbeki presenti chiamarono altri connazionali per avere man forte. Nello stesso momento, in città si propagò la strana notizia secondo cui un gruppo di uzbeki avesse attaccato lo studentato dell’università. Nel corso della notte, la storia principale si arricchiva di fatti e dettagli sempre più macabri. Si diceva che gli uzbeki avessero raso al suolo il dormitorio dopo averne stuprato e ucciso le studentesse: non importava che l’edificio fosse ancora lì, integro, e che nessuno vi avesse davvero fatto irruzione.
«Il gruppo si è introdotto nello studentato e ha violentato le studentesse. Altri hanno pestato gli studenti kirghisi e rotto le finestre dell’edificio. Sono stati rinvenuti i corpi di otto studentesse. Le ragazze sono state stuprate, sfregiate con coltelli e recano segni di ustioni. Ad alcuni cadaveri hanno squartato l’addome riempiendolo di spazzatura e cavato gli occhi.»2
Questi racconti raccapriccianti infiammarono i kirghisi e la città di Osh, quella notte, si trasformò in un campo di battaglia. Bande armate percorrevano le strade, seminando distruzione. Sui muri delle case e dei negozi apparvero segni distintivi che indicavano quali edifici appartenessero ai kirghisi, risparmiandoli dalle devastazioni. Pochi giorni dopo, il 12 giugno, gli scontri si erano estesi a Jalalabad, a cento chilometri a nord.
La situazione sfuggì rapidamente al controllo. Le autorità locali chiesero aiuto alla Russia, ma Mosca si rifiutò di intervenire, dichiarando che si trattava di una questione interna al Kirghizistan. Solo il 15 giugno, dopo cinque giorni di lotte sanguinose, le forze dell’ordine riuscirono a ristabilire una parvenza di ordine, grazie anche al dispiegamento dell’esercito. Il bilancio finale fu devastante: oltre 420 morti, più di 2000 feriti, centinaia di migliaia di sfollati verso l’Uzbekistan e le aree di confine. Più di 2000 edifici furono distrutti o dati alle fiamme.
Ci sono moltissime somiglianze tra i fatti di Osh del 1990 e quelli del 2010, tuttavia divergono tantissimo quando si arriva ai colpevoli. Nel processo del 1990, il primo procedimento giudiziario per conflitti etnici dell’Unione Sovietica, quarantotto persone furono condannate per omicidio, tentato omicidio e stupro: di queste, l’80% era kirghiso.
Nel 2010, settantuno persone furono imputate: questa volta l’80% era di etnia uzbeka, di cui 17 furono condannate all’ergastolo. Nei processi, tutti i giudici e gli avvocati, anche quelli della difesa, erano kirghisi.
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Il titolo di questo articolo riprende una citazione dell’antropologa Erika Fatland: “I confini sono come i würstel, meglio non sapere come sono stati fatti.”3
Terzani, Tiziano. Buonanotte Signor Lenin, Tea, 2018.
Kapuscinski, Ryszard. Imperium, Universale economica, Feltrinelli Editore, 1995.
Fatland, Erika. Sovietistan: Un viaggio in Asia centrale, Marsilio, 2017.
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Complimenti per questo lavoro di ricerca molto accurato!
Non capisco la foto del pane... è appeso nel forno? E gli alberi della steppa si chiamano saxual o saxsaul? 🤓