“Per me i russi non sono altro che dei turchi bianchi”, commenta con espressione disgustata Gaghin, il gestore dell’ostello di Yerevan. Ha due sorelle a Kharkiv, sotti i bombardamenti, e la malinconia ereditaria degli armeni. Grande popolo, quello armeno. Occupavano una vasta fetta del Caucaso meridionale che andava dal Mar Caspio ai confini della Cappadocia. La sua storia è complessa ma, se si accantonano date ed eventi, quello che rimane è l’impressione di un territorio rosicchiato per secoli fino a che ne è rimasto solo un pezzettino.
Siamo sulla terrazza di un ostello nel centro di Yerevan a bere del vino armeno in compagnia di gente d’oriente: armeni, ucraini, iraniani. Terre che si stanno scaldando. Tra i vari ospiti, da Gaghin hanno riparato ragazze ucraine fuggite dalla guerra. “Ho amici qui a Yerevan e poi tutti parlano russo”, ci dice una donna con i capelli biondi a caschetto. Scopro che a Kyiv viveva nella mia stessa strada.
L’Armenia è nel polo d’influenza della Russia e, infatti, non si vede neanche una bandiera gialla e azzurra, al contrario della Georgia che è una terra tappezzata di insulti a Putin e al suo impero. Schiacciati tra i turchi, che li hanno sterminati all’inizio del secolo scorso, e gli azeri, che continuano a prendersi pezzetti di territorio e scacciano gli abitanti dell’idilliaco Nagorno-Karabakh, gli armeni sono rimasti soli e senza aiuto. Avvicinarsi all’asse verticale Russia-Iran è stato un passaggio naturale. Seduti su quella terrazza a bere vino fruttato abbattiamo le frontiere imposte, parliamo in inglese e ci raccontiamo esperienze di vita in barba a qualsiasi questione geopolitica. Era l’estate del 2022: eravamo appena usciti dall’esperienza del covid-19 e si sperava ancora che la guerra in Ucraina sarebbe finita in fretta. Non sapevamo che quello era solo l’inizio di un lento declino mondiale.
Gli armeni sono fieri, combattivi, ricordano i tempi in cui possedevano il Caucaso meridionale. Furono il primo popolo a convertirsi al cristianesimo, proprio loro che oggi sono circondati per tre quarti da paesi islamici, e dicono di essere gli inventori del vino. Non so se sia vero, fatto sta che è buonissimo, specie quello al melograno.
Ciò che più ci confonde, però, è il silenzio. Si sussurra o non si parla per niente, a volte sembra che si comunichi con il pensiero e non capiamo come facciano a chiamare le fermate delle marshrutke, i minivan sovietici che anche qui spiccano come il mezzo di trasporto più utilizzato. Forse comunicare ad alta voce non è accettato, come scopriamo a nostre spese dopo un rimprovero non solo verbale da parte di una donna alquanto aggressiva. Malinconia e vino fruttato riempiono l’aria di questo paesino di neanche 3 milioni di abitanti. Molto meno della metà di quelli della diaspora.
Il nord è montagnoso e verde e dalle alte vie che attraversiamo in marshrutka si vede l’Azerbaijan. Ne rasentiamo il confine. Anzi, con nostro grande sconcerto scopriamo da Google Maps che qui e lì attraversiamo letteralmente dei minuscoli pezzi di territorio disabitati che appartengono agli azeri. Tante piccole exclave.
La capitale si stende in mezzo a un semi-deserto di roccia e a qualche cespuglio secco. Quando arriviamo a luglio ci sono 52 gradi percepiti. Vi approdiamo dopo aver preso due marshrutke, ça va sans dir, una per Tblisi da Lagodekhi – in Georgia, al confine con il Daghestan e l’Azerbaijan, dove ci è stato negato l’ingresso via terra nonostante il visto – e un’altra da Tbilisi a Yerevan. Le strade armene sono meglio di quelle georgiane, ma gli autisti hanno lo stesso gusto per il fatalismo mentre attraversiamo paesini sconosciuti e pompe di benzina abbandonate.
Yerevan è molto grande per un paese così poco abitato. Il traffico è intenso, il calore proviene da tutti i lati e ci soffoca. Con le scarpe estive dalla suola sottile ci bruciano persino i piedi. Un mostro di cemento e smog che sorge da massi e terreno arido: un inferno. Venne costruita all’improvviso per accogliere gli armeni superstiti e il risultato fu una città prettamente sovietica con i vialoni alberati costeggiati da palazzi squadrati e un’asfissiante zona industriale. Il centro è stato abbellito con giardinetti circolari dove passeggiare o bere qualcosa nei costosi baretti.
Piazza della Repubblica è immensa, perfettamente circolare, attorniata da costruzioni moderne dal colore rosato che attenua il brutalismo. C’è il Palazzo del Governo, con i poliziotti annoiati che fissano i passanti all’ombra degli alberi per combattere il caldo che ci sta cuocendo; la Galleria Nazionale – che non ci ha molto entusiasmato ma ci ha protette dalla gran calura – e il Museo di Storia Nazionale, che conserva manufatti antichi del Caucaso, gioielli, abiti tradizionali, accessori quotidiani del XIX secolo e una stupenda collezione di mappe medievali, europee, islamiche, bibliche e immaginarie.
Di notte, le fontane davanti al museo attirano migliaia di cittadini con i loro giochi d’acqua, le luci colorate e le musiche di Star Wars ed Harry Potter per allietare le sere d’estate. Ci vengono le famiglie, i bambini scorrazzano qua e là con i palloncini in mano. C’è anche chi non può permettersi uno dei costosi locali notturni del centro, in un paese dove il salario minimo è di 200 dollari americani al mese. Qualcuno ci spiega che in Armenia non esiste il ceto medio: o si è benestanti o si rasenta la povertà. Ce ne accorgiamo anche dai prezzi: non sono più economici che in Italia e il turismo non è sviluppato come il nostro. Ci deve essere una clientela ben precisa per quel genere di posti.
Yerevan, a metà strada tra Oriente e Occidente, non ha nulla né dell’uno né dell’altro e ancora non so come classificare l’Armenia nel mio cassetto mentale dedicato ai viaggi. Di certo non assomiglia a nessuna delle capitali europee, né alla folle Tbilisi, stramba millefoglie di epoche e culture. È piuttosto come uno di quei ragazzi dinoccolati cresciuti troppo in fretta, un po’ a disagio nel proprio corpo e che cercano di rendersi gradevoli nell’aspetto per attirare le ragazze, spesso senza successo.
I “must see” di Yerevan, la lista da spuntare per ogni turista, non è molto lunga e forse la vera attrazione è essa stessa, questo nucleo sovietizzante che sorge dal deserto coperto da una grigia coltre di smog e malinconia.
L'unico spot “turistico” che mi è davvero piaciuto è stato il Matenadaran, nome complicatissimo per dire biblioteca. È oltre il cerchio di giardini e localini, subito dietro il complesso artistico Cascade. È un'altra delle stranezze di Yerevan: la biblioteca è circondata da massi rocciosi che sbucano in cima a una salita ed è un enorme (come quasi tutto qui) complesso di granito che sembra davvero nascere dal deserto: più che dell’uomo, appare come un'opera della natura stessa, un misterioso luogo di saggezza che è nato indipendentemente. Pare lì da secoli, millenni quasi, pronta a dare l'illuminazione a chi la desidera.
Sulla facciata si nota una statua che raffigura l'inventore dell'alfabeto armeno e un suo discepolo, in piedi davanti a una lastra con incise le misteriose lettere armene tutte curve. Dopo aver varcato la soglia si accede alla biblioteca, al museo e all'istituto di restauro libri. Un luogo di magia per chi ama la le lettere e la storia. Vi si possono trovare i primi volumi stampati in armeno a Venezia – dove tuttora vive una comunità – e in altre città italiane; quelle pubblicate ad Amsterdam, Calcutta, Mosca e altre; si possono ammirare Bibbie in armeno compilate dagli amanuensi nei monasteri che ricoprono questo paesino cristiano; e ancora inni e codici relegati in argento; tomi ritenuti oggetti di culto dalle antiche comunità armene in Iran (che come tutti gli altri paesi si prese la sua fetta di Armenia) e quelli conservati dai sopravvissuti al genocidio, antichi di 600 anni. Tuttavia non tutto ruota intorno all'Armenia: ci sono pergamene, papiri, Corani e Torah in ebraico, turco, persiano, cinese, la Bibbia in latino, armeno, georgiano, slavonico e, senza nessun collegamento, una mostra di tessuti iraniani. L'ambizioso Matenadaran conserva saggezza millenaria di ogni cultura, quasi riscattando una città senza storia. Il grembo del mondo in cemento e granito.
Spostandoci verso qualcosa di più mondano, nella parte settentrionale di Yerevan sorge un moderno complesso artistico chiamato Cascade. È uno scalone immenso – ovviamente – che sovrasta la città. Un tocco di contemporaneità per annunciare che anche l’Armenia è entrata nel terzo millennio. Ai suoi piedi sono state installate le onnipresenti statue obese di Botero e una teiera gigante in fil di ferro. Si può salire fino in cima dall’interno, dove ogni piano ospita una mostra d’arte contemporanea, o dall’esterno, dove su ogni terrazza è stato allestito un giardinetto con fontane e aiuole di fiori agonizzanti nel caldo infernale. Più si sale e meglio si vedono la città, i vialoni trafficati, le case squadrate, l’intera popolazione piazzata lì tra le rocce del deserto.
Ed è da una di quelle terrazze che, all’improvviso, in modo inaspettato, oltre la cortina di smog, oltre la città, oltre il deserto, appare il profilo del biblico Monte Ararat con le due cime, le stesse che compongono il simbolo dell’Armenia, la più alta delle quali assurdamente innevata nella canicola. È altissimo, imponente, domina il Paese anche da così lontano, da oltre il confine. Con tanto dolore degli armeni, la montagna sacra del Caucaso è in territorio turco, in quella che era la Grande Armenia. Dicono che su di essa ci siano guardie armate che sparano a vista ai visitatori indesiderati. Nessun armeno potrà mai avvicinarsi al simbolo del proprio orgoglio e della propria Storia, simbolo dello squartamento dell'Armenia odierna. Nemmeno noi ci andremo, ma come tutti partiremo per Khor Virap, un monastero a 4 km dal confine con l’exclave azera del Nakhchivan e a pochissimi chilometri dal confine turco. È il punto più vicino possibile per ammirare le due vette innevate senza toccarle. La vista dell’Ararat è un colpo al cuore, è un “Ecco sono arrivata. Il viaggio ora è finito.”
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