A Batumi, in Georgia, c’è una statua dinamica di Nino e Ali, due silhouette di ferro affacciate sul Mar Nero che si incastrano e si allontanano a cadenza regolare. Lei georgiana, lui azero. La storia è ambientata in una Baku ancora sotto l’impero zarista, in cui le tre etnie principali del Caucaso convivono quasi pacificamente. Quasi. Il terzo personaggio – Melek Nacharyan – è armeno ed è il combina guai della situazione, ricco e disonesto. Ali, che lo credeva un vero amico, una sera gli lascia in custodia la fidanzata Nino, ma Nacharyan la rapisce. Ali li insegue e uccide Melek; così è costretto a scappare e a vivere in solitudine e povertà tra i monti del Caucaso. Già in quel romanzo, ambientato più di 100 anni fa, gli armeni vengono dipinti come avidi e approfittatori e, tutto sommato, la pacifica convivenza imperiale non è così pacifica.
Un secolo dopo, con tutto quel che c’è stato nel frattempo – i bolscevichi, la guerra mondiale, i nazionalismi, milioni di morti, genocidi e finalmente la pace – uno spera che l’umanità abbia imparato.
E invece no.
E invece Israele bombarda Gaza uccidendo civili; la Russia allunga i suoi tentacoli imperialisti sull’Ucraina europea e l’Azerbaijan fa strage di armeni. Nel romanzo di Nino e Ali c’è una scena ambientata nel Nagorno-Karabakh, territorio montagnoso e idilliaco dentro le frontiere azere ma abitato da armeni. I due paesi se lo contendono da anni, dalla caduta dell’Unione Sovietica che ha sommariamente delineato i confini di ogni paese ubbidendo al divide et impera. Un giorno l’esercito armeno se lo prende senza tanti complimenti, quello dopo l’Azerbaijan lo invade di nuovo.
Lo scorso settembre sembra che ci stata la resa dei conti finale: Baku aveva bloccato il corridoio di Lachin isolando di fatto l’exclave armena prima di entrarci con le armi e di scacciare tutti gli armeni per “ripulire” il territorio. Yerevan, piccola e debole com’è, abbandonata dalla sorella Russia impegnata su altri fronti, questa volta non ha potuto far altro che accettare la disfatta e accogliere i profughi dell’ameno Nagorno-Karabakh.
Nell’estate del 2022, quando abbiamo visitato l’Armenia, le agenzie di viaggio pubblicizzavano tour di quella zona ma abbiamo preferito non andarci. Che grande sbaglio, cosa ci siamo perse.
Ci sono due grandi sfide da affrontare in un viaggio in Armenia: quella linguistica e quella dei trasporti. L’armeno mi suona così complicato e il suo alfabeto è così bizzarro, che non ho imparato nulla, al contrario della Georgia dove riuscivo almeno a salutare, ringraziare e brindare. Se proprio dovessimo dare un merito all’Unione Sovietica, è quello di aver dato una seconda lingua alle isolate popolazioni del Caucaso, dove gli idiomi non si somigliano per niente nonostante la vicinanza e le piccole dimensioni dei Paesi.
Masticare un po’ di russo torna vantaggioso quando si viaggia a Est, però non è abbastanza per districarsi nell’inefficienza dei mezzi di trasporto pubblico. Sul sito ufficiale non si capisce nulla, Google Maps si rifiuta di collaborare e gli abitanti danno informazioni discordanti tanto che un pomeriggio lo abbiamo trascorso girovagando per l’asfissiante zona industriale di Yerevan in una fornace di lamiere su ruote.
L’inferno, se esiste, è così.
Il giorno dopo siamo riuscite a raggiungere il bellissimo monastero di Geghard senza perderci di nuovo tra le fabbriche. Dal centro città abbiamo preso un taxi fino alla fantomatica stazione dei bus di Massif, sconosciuta anche al tassista che, dopo essersi perso tra vicoli e stradine, ha perso la pazienza e ci ha abbandonate lì. Come per miracolo, un passante che parlava inglese ci ha detto dove avremmo trovato gli autobus. Dopo un’ora e un biglietto sovrapprezzo abbiamo raggiunto la nostra destinazione. In Armenia conviene spostarsi con un mezzo privato, se si ha il coraggio di guidare tra gli autisti caucasici.
Geghard è considerato il monastero più bello dell’Armenia. Sorge in cima a una collina, in un bosco, e la sua amenità è enfatizzata da una sorgente dentro la chiesa. I monasteri armeni sono misteriosi, spogli e un po’ cupi, con le grandi porte intagliate. Sono spesso su un promontorio lontano dai centri urbani e immersi nella natura. Ancora lontani dal circuito del turismo “mordi e fuggi”, sono gratuiti, senza folla e difficili da raggiungere.
Tornando in città la fortuna gira dalla nostra parte: un taxi ci porta nel villaggio di Goghta e lì, di fronte a un misero alimentari dove si possono comprare solo cibi imbustati, compare un bus diretto a Yerevan, un mostro dell’epoca sovietica tutto scassato che procede con la porta aperta nel tristissimo paesaggio rurale di case fatiscenti, spazzatura e donne in tiro. Un mondo che sembra uscito ieri l’altro dall’URSS. Chissà come deve essere stato passare di qua 40, 50 anni fa. L’orgoglio armeno, però, ha fatto sì che tanto venisse riportato in vita dopo la caduta dell’Unione Sovietica e oggi possiamo ancora ammirare gli splendori di questo antico popolo, come Echmiadzin.
-L’Armenia fu la prima nazione a convertirsi al cristianesimo ed Echmiadzin, ben collegata alla capitale, è il polo religioso della chiesa armena, una sorta di Vaticano mediorientale. La sua storia è molto interessante: l’insediamento risale al 600 a.C. e fu capitale di uno dei regni armeni. Nel 301 d.C. il re Tiridate si innamorò di Rispina, una suora di Roma promessa in sposa a Diocleziano, fuggita con la sua badessa Gaione e altre suore in Armenia. Qui la giovane rifiutò anche le avances di Tiridate, che la torturò e la uccise insieme alla badessa. Nei luoghi della loro morte sorgono due chiese, mentre la terza venne eretta nel punto in cui furono trucidate le altre 38 suore. Le abbiamo visitate tutte e tre, cupe, immense, dove i parenti di chi si sposava e si cresimava quel giorno accendevano sottili candeline di cera ocra. Lo abbiamo fatto anche noi: era diventato un nostro rito accendere uno di quei cerini in ogni monastero che visitavamo nel Caucaso, un tacito ringraziamento per esser sopravvissute all’ennesimo viaggio con un autista pazzo.
Tiridate lo abbiamo ritrovato anche a Khor Virap, un monastero fuori Yerevan in tufo rosa con una magnifica vista sull’Ararat innevato. È il luogo in Armenia più vicino alla montagna sacra, a soli 4 km dal confine. Ci siamo arrivate con una guida e una marshrutka privata, arreseci all’evidenza che da sole non ce l’avremmo mai fatta.
Qui Tiridate, a capo della legione romana per conto di Aureliano, scacciò i Sassanidi dall’Armenia. A Khor Virap incontrò Grigor, uno dei figli di Anak, di famiglia parta, che aveva assassinato il re armeno. Dapprima Tiridate lo accolse nella sua corte senza sapere chi fosse ma quando, durante una cerimonia pagana gli ordinò di incoronare la statua di una dea ed egli si rifiutò, lo fece rinchiudere nei pozzi ancora esistenti sotto le cappelle e diede ordine di torturarlo
Più tardi Tiridate, dopo aver ucciso le vergini a Echmiadzin, perse il senno e quando ritornò in sé si convertì al cristianesimo con l’aiuto di Grigor che nel frattempo era rimasto imprigionato per 13 anni. Molte delle chiese armene, distrutte e ricostruite nel corso dei secoli, furono create proprio su ordine di Grigor.
Un altro monastero affascinante e famoso è quello di Novarank. Le chiese armene si somigliano tutte: buie, di pietra e quasi mimetizzate con il paesaggio che le circonda. Sono spoglie, troviamo solo incisioni sacre. A volte ci sono delle tombe, quindi sul retro della chiesa spicca il bassorilievo di un’aquila che tiene un cervo tra gli artigli. Le croci incise all’esterno indicano il dono di qualcuno, le lettere dell’alfabeto armeno sopra i portali sono inserite l’una nell’altra in modo da segnare più d’un nome sacro combinandole in modo diverso.
Religiosità a parte, la cosa più bella di questo minuscolo paese rimane il paesaggio. L’Ovest dell’Armenia è deserto, le colline sono ricoperte da arbusti via via sempre più secchi. Per un attimo si apre dinanzi a noi tutta la magia del Medioriente, con la musica iraniana nella marshrutka e il paesaggio che si dispiega oltre il finestrino mentre sfrecciamo sulle stradine montane. Opposto è il panorama a Est, verso le montagne, dove tutto è più lussureggiante e fresco. A Jermuk si trovano le terme più famose del paese: si può assaggiare l’acqua del posto che va dai 30 ai 54°. Il sapore è molto particolare, sempre più ferroso man mano che si alza la temperatura e, come in Georgia, anche qui la frutta è abbondante e succosa. Ad Areni, non lontana da Novarank, abbiamo assaggiato vini rossi diversi da quelli nostrani, fruttati come sono: alla mora, al melograno (che viene tenuto in grandi giare di terracotta decorata con motivi tipici armeni, tra cui persino l’alfabeto armeno in fantasiosi caratteri colorati) e brandy all’albicocca.
L’Armenia è antichissima e tenace: i secoli e la Storia avrebbero potuto inghiottirla, ma una sua fettina spicca ancora in quell’angolo di mondo, schiacciata tra paesi ostili che mai assaggeranno i suoi meravigliosi vini.
Lettere dall’Oriente è e sarà sempre gratuito. Ogni articolo è frutto di lunghe ore di scrittura, di studio e di revisione: gli daresti del valore e te ne sarei grata qualora decidessi di supportare questo piccolo progetto.
Se ti è piaciuto questo articolo, continua a leggere del Caucaso: