Problemi di frontiere (1) - Caucaso
Di ostilità, confini e guazzabugli politici - Parte prima
Il viaggio è una metafora della vita – non sono certo io la prima a dirlo – e a volte sia il viaggio sia la vita si ingarbugliano così tanto che per uscirne si ha bisogno di tre cose: creatività, adattabilità e un pizzico di fortuna nell’incontrare le persone giuste. In realtà nella mia mente ronzano altri sostantivi: servono flessibilità, prontezza di spirito, saper comunicare in lingue che non conosciamo, aiuto esterno, congiunzioni astrali favorevoli, scaltrezza – in senso buono – e una bella dose di incoscienza. A questo proposito mi torna in mente una delle avventure più strampalate che mi siano capitate di recente, un mesetto dopo aver lasciato la casa a Venezia. Ero in giro per il Caucaso con Alessia: avevamo visitato la Georgia, mangiato il suo cibo delizioso, bevuto il vino più buono del mondo, assaporato la sua frutta vera che non sa di supermercato, goduto di panorami mozzafiato dalla sua vertiginosa catena montuosa, rischiato la vita tra i tornanti a causa di autisti pazzi. Ci stavamo pian piano dirigendo verso l’Azerbaijan, il cui accesso ci era stato negato, così avevamo ripiegato sull’Armenia.
Finito il viaggio, era arrivato il momento di tornare verso l’Europa: la fluttuante Istanbul ci aspettava con le sue tazze di chai fumante e i suoi minareti dorati all’altro capo della penisola anatolica. Eravamo a Yerevan, la capitale dell’Armenia, con 52 gradi percepiti sul cemento di luglio, in mezzo a un deserto roccioso, e i ghiacciai del lontano Ararat che si facevano beffe del nostro sudore. Da lì abbiamo preso un taxi condiviso – una macchina per sei o sette passeggeri – in direzione Gyumri, la seconda città dell’Armenia, tristemente famosa per il grande terremoto del 1988 che ne ha distrutto metà. Abbiamo alloggiato in un appartamento gestito da un signore polacco che ci ha accolte con una playlist di Eros Ramazzotti, credendoci di farci piacere.
La nostra intenzione era di provare ad attraversare il confine con la Turchia, arrivare a Kars in trenta o quaranta minuti e da lì prendere un volo per Istanbul. Facile, no? No. Assolutamente no. Perché il confine era chiuso anche a cittadini di paesi terzi, quindi saremmo potute arrivare in Turchia solo rientrando in Georgia. Noi conoscevamo benissimo le regole internazionali, ma volevamo provarci lo stesso, perché, come dicevo, un pizzico di incoscienza spesso può tornare utile: magari allungando una mazzetta avremmo potuto accorciare il viaggio di una giornata intera. Tuttavia, la famigerata corruzione di cui ci si lamenta sempre, io non la trovo mai. Abbiamo quindi deciso di prendere una marshrutka (un minivan d’epoca sovietica, principale mezzo di trasporto dei paesi dell’ex URSS) per Akhaltsikhe, in Georgia, alle dieci di mattina, come c’era scritto su internet: ebbene, internet in Armenia ha regole che non rispondono a quelle di noi comuni mortali e la corsa non esisteva. C’era solo una marshrutka alle dieci di sera in direzione Batumi, la Las Vegas del Caucaso sulle sponde del Mar Nero, zeppa di bagnanti e giocatori d’azzardo russi.
Era piena, come anche quella del giorno dopo. L’unica soluzione per uscire dall’Armenia era via taxi: i prezzi propostici erano un po’ troppo alti. Eravamo senza internet e l’unico caffè aperto a quell’ora, che offriva frittate e nient’altro, non aveva il wifi. Alessia, più intestardita che mai, è riuscita a trovare un wifi a caso in strada e ci siamo dovute sedere a terra come due barbone fino a che non ci hanno mandate via. In quel lasso di tempo, Alessia è riuscita a scrivere al console italiano di Gyumri che ci consigliato di rivolgerci a una sua conoscenza armena che parlava italiano e che ci avrebbe trovato un taxi per la prima, triste, città georgiana al di là del confine: Ninotsminda.
Mentre aspettavamo il taxi chiamato da Anna, l’amica del console, è passato su di noi, a distanza troppo ravvicinata, un aereo militare con un rombo così potente da indurci a pensare che fosse un missile lanciato dagli armeni o contro di loro. Non abbiamo mai avuto così tanta paura in vita nostra: e quello era solo l’inizio della giornata. Un paio di mesi dopo il nostro rientro, è ricominciata davvero l’annosa guerra tra Armenia e Azerbaijan, che sembra ricorrere ogni settembre a cadenza fissa.
L’Armenia e l’Azerbaijan sono in guerra da circa trent’anni, dalla caduta dell’Unione Sovietica. La storia dell’Armenia è tanto interessante quanto complessa: è un paese dalla storia antichissima, è stato il primo territorio a riconoscere il cristianesimo come religione ufficiale e ha vissuto guerre, distruzioni e anche il famoso genocidio perpetrato da Turchi e Curdi all’inizio del ‘900. Sebbene di dimensioni sempre diverse nel corso dei secoli, il suo territorio era molto più grande di quello attuale, parti del quale ora fanno formalmente parte della Turchia (come Kars e il lago di Van), la Georgia e l’Azerbaijan. Quest’ultimo include il Nagorno-Karabakh, territorio abitato da armeni, ma ceduto al paese dei petrolieri dai russi e a esso rimasto dopo il dissolvimento dell’URSS. È per il Nagorno-Karabakh che i due paesi combattono regolarmente, in brevi ma intensi attacchi che fanno strage di civili e di giovani soldati. Una peculiarità dell’Armenia sono i murales ritraenti i giovani militari caduti in battaglia, dipinti sulle case dove hanno vissuto. Di solito i volti sorridenti sopra la mimetica appartengono a ragazzi di diciotto, vent’anni.
Quella mattina di luglio noi ci siamo lasciate indietro l’Armenia e il suo dolore secolare per approdare a Ninotsminda attraverso paesaggi bellissimi, che sono il punto forte del piccolo paesino mediorientale. Se uno vuole viaggiare in Armenia deve uscire da Yerevan: in quel caso però o deve avere un mezzo privato o, meglio ancora, affidarsi a una guida ufficiale per non sprecare tanto tempo a cercare mezzi pubblici inesistenti.
A Ninotsminda il tassista ci ha aiutato a trovare un passaggio per la frontiera. La Georgia e la Turchia condividono tre dogane: noi abbiamo scelto quella più isolata, nel parco nazionale di Kartsakhi attraverso una strada sterrata. Nonostante l’assurdità della situazione, la vista era molto piacevole. Al confine c’è l’omonimo lago, isolato e conosciuto solo dai locali, dai camionisti e da noi, che abbiamo raggiunto la frontiera senza grossi problemi e l’abbiamo attraversata a piedi. Eravamo in Turchia! Ora non ci restava che raggiungere Kars e imbarcarci su un aereo.
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