Girovagare per la Georgia nel 2022 fa comprendere tutta la tragicità che la Russia ha portato ai deboli Paesi un tempo a lei dipendenti. Sia l’Ucraina che la Georgia fecero parte dell’impero zarista prima, dell’Unione Sovietica poi e oggi condividono una storia di invasioni, uccisioni e il forte desiderio di aderire all’Unione Europea.
Alle frontiere georgiane svettano le bandiere europee e il timbro sul passaporto è circondato da un cerchio di 12 stelle. Qualcuno non ferratissimo potrebbe pensare che la Georgia faccia parte dell’UE, ma non è ancora così. Anzi, come ci ha detto Levan, un georgiano che si occupa di controllare se le strade del suo Paese seguano le norme europee, la Georgia è ancora molto lontana dal raggiungere gli standard occidentali. Però ci sperano.
Come sperano tante altre cose, per esempio la liberazione dell’Abkhazia, dell’Ossezia e dei territori occupati in Ucraina. Sperano che Putin ritorni entro i suoi confini e la smetta di rosicchiare le lande altrui.
Dall’inizio della guerra in Ucraina, in Georgia i vessilli blu e giallo svettano sui palazzi governativi e sulle case private, vengono dipinti sui muri accompagnati da insulti nei confronti del dittatore russo, le babushke sui loro sgabelli vendono spille e portachiavi con i colori dei loro vicini nella tragedia. Si vedono bandiere georgiane e bandiere ucraine in uguali quantità, ma il neon che campeggia nel centro di Tbilisi dice una sola cosa “Be brave, like Ukraine”. “Sii coraggioso, come l’Ucraina”.
Un altro manifesto che colpisce gli occhi è una mappa della Georgia – che è un Paese piccolissimo, di neanche 4 milioni di abitanti – nel quale si evidenziano i territori occupati dalla Russia, cioè il 20% del territorio. Abkhazia e Ossezia del Sud si autoproclamarono indipendenti più di 30 anni fa, rimanendo di fatto sotto il controllo della Russia. Non sono riconosciute dalla comunità internazionale e la Georgia ha cercato di riprendersele senza successo. Oggi sono sempre più chiuse e isolate, è difficile entrarci e uscirne senza permessi speciali e non è comunque consigliato, dato il precario equilibrio geopolitico tra il cosiddetto Occidente e la Russia. Questa è l’aria che si respira in Georgia quando arriviamo, ma l’ansia che provoca la guerra in Ucraina viene alleviata dalla poesia e dalla sregolatezza dei georgiani.
L’atterraggio a Batumi è un’esperienza fuori dalla logica umana. Come se gli architetti più squinternati si fossero riuniti qui perché non hanno ottenuto da nessun’altra parte il permesso di portare nella realtà le loro idee.
Batumi, città dell’Agiara, nel Sud-Ovest della Georgia, sul Mar Nero, è una città completamente a caso, quasi a strati: c’è il mare, la spiaggia sassosa, il lungo mare costeggiato da palme, i mosaici dell’era sovietica – come quello di un enorme polpo – i boulevard con i nuovi hotel che fanno a gara a chi è il più stravagante, le viuzze con i complessi abitativi sovietici e infine gli angoli sconquassati con i negozietti segnalati da grandi insegne al neon che ricordano la Cina.
In questa Macao caucasica piena di russi in vacanza e di bandiere ucraine, negli ultimi anni è sorta un’architettura ultramoderna e ultra dissennata.
Il Mariott è fatto a onde; il “Colosseum” ha, ovviamente, la forma dell’anfiteatro Flavio decorato con statue di gladiatori; il White House è un tempio greco a testa in giù: l’Università Tecnologica svetta verso il cielo e, incastonata tra le vetrate a svariati metri d’altezza, si nota una ruota panoramica dorata; altri hotel sono ovali, circolari, a forma di nave, in stil art-nouveau. Il MacDonald’s è una sorta di navicella spaziale fatta di specchi e proiettata nell’infinito tra una pompa di benzina e un grattacielo. I progetti illustrati dinanzi ai cantieri anticipano che l’eccentricità continuerà per gli anni a venire. Sarà da tornarci, a Batumi, il paradiso degli architetti.
Il turismo qui è quasi prettamente russo, nonostante gli attriti politici. Complici il mare, i casinò, la cucina buona, i prezzi bassi e la lingua.
Al potpourri di Batumi si aggiungono sale da tè turche con i narghilè, chiese cattoliche, quelle armene con i loro bei melograni in fiore e una piazza di recente costruzione chiamata “Piazza” in italiano, perché è il nostro lo stile che vorrebbe imitare con la pizzeria Mimmo e il caffè Bella Mia.
Al porto sfoggia la scultura in movimento di Nino e Ali, due silhouette metalliche che si rincorrono e si riuniscono all’infinito, ispirata dall’omonimo romanzo, nel quale si narra la storia d’amore tra la principessa georgiana Nino e il nobile azero Ali, nella Baku zarista dei primi petrolieri, quando georgiani, armeni e azeri convivevano ancora – non molto pacificamente ma comunque rispettosamente – fino al disastro, alla Rivoluzione Bolscevica e alle scissioni che ne seguirono. Da allora, Nino e Ali si cercano.
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“Can I have your Facebook, so I can at least dream of you?”. Lo diceva Terzani, che i georgiani sono pazzi, ma anche dei poeti. È stato un approccio poetico-modernista quello del giovane al tavolo di fronte al nostro in un normale ristorante di Kutaisi.
Kutaisi, già il nome ha in sé una sua poesia. Qui arrivò Giasone con gli argonauti ed è a loro che è dedicato uno dei pochi siti turistici di questa brutta città georgiana: l’orrenda fontana metallica con coperture dorate dedicate al mito del vello d’oro e che immortala i suoi protagonisti in un’atroce posa squadrata, al centro della piazza, tra gli edifici del teatro e dell’Opera.
Kutaisi si raggiunge in treno o cercando a caso una marshrutka – il minivan dei paesi ex-sovietici. Basta chiedere in giro per trovarne la stazione più vicina. Anche perché le informazioni su internet sono veramente poche. Le tre ore di strada da Batumi sono un susseguirsi di case di campagna, galline sul ciglio della strada e vacche al centro della carreggiata: un flashback del viaggio in Cambogia anni prima.
Il secondo highlight della città è il bazaar, dove si vende di tutto, dai prodotti per la casa al suluguni – il tipico formaggio georgiano – dalle batterie alle spezie, dagli articoli di cancelleria alla churchkhela – un dolce di pasta d’uva ripieno di noci. Come ogni mercato dell’Est Europa che si rispetti è dominato da grosse babushke con sporadiche comparse di smilzi vecchietti malinconici, come quasi tutti i georgiani d’altronde, che appaiono taciturni, quasi terrorizzati.
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La strada tra Kutaisi e la capitale Tbilisi è un’arrampicata tra tir e vacche che intasano il traffico, in attesa che le ditte cinesi finiscano di costruire autostrade e gallerie. Ogni Paese in via di sviluppo ha i suoi cari progetti del Regno di Mezzo: la Cina ha le mani in pasta ovunque, crea ferrovie in Europa Orientale, rade al suolo e ricostruisce città in Cambogia, prende isolotti Filippini e crea infrastrutture in mezza Africa.
A Tbilisi la marshrutka si ferma in un agglomerato di baracche, sulle quali pendono disordinati cavi elettrici. Evitiamo i tassisti invadenti e montiamo nella metropolitana, che mi sbalza indietro ai tempi di Kyiv non appena vi metto piede. Stressi treni sovietici (ma qui sono bianchi e rossi, lì blu e gialli), stessi sedili di plastica, stesse babushke con le loro sporte piene di verdura, persino lo stesso odore di chiuso e umanità.
La stazione della metro stessa è identica a quelle della capitale ucraina. La gente ci vende di tutto: frutta, sigarette sfuse, vestiti cinesi, crauti, oggettistica per la casa. Stessa gente traumatizzata da secoli di violenza perpetrata dalla Grande Vicina che ha schiacciato mezzo Oriente.
A parte la metropolitana e il dolore, Tbilisi non condivide molto altro con Kyiv. Qui c’è tutto, davvero tutto. La prima cosa che abbiamo fatto è stato andare a vedere la città dall’alto. Partendo da Liberty Square – il centro solo per convenzione – siamo salite fino all’antica fortezza che domina la capitale e che è stata costruita, distrutta e ricostruita nei secoli da chiunque ci passasse: persiani, mongoli, russi, etc.
Dai piedi della gigantesca statua della Madre della Georgia, una donna in abiti tradizionali che tiene una coppa di vino nella mano sinistra per accogliere i visitatori e una spada nella destra a difesa della città, si ha una vista sull’intera Tbilisi, sul fiume, sui monasteri sulle colline di fronte, sulla mongolfiera per divertire i turisti, sugli antichi bagni turchi, sulla ruota panoramica, sul nuovo ponte a forma di assorbente. La fortezza è il limite della città: alle spalle c’è il giardino botanico e null’altro, solo colli e natura. Di fronte, invece, c’è tutta la follia di Tbilisi, crogiolo di epoche, mondi e culture.
Scendendo dalla fortezza si entra nel quartiere Abano, dove si trovano i bagni ottomani, sia quelli antichi che quelli più moderni, questi ultimi in una stupenda struttura mediorientale di mosaici blu, azzurri e viola che sembra quasi di essere a Samarcanda. In questa zona c’è un’atmosfera da 1001 notte: piccole case colorate con balconcini dalle imposte merlettate in stile orientaleggiante e una moschea con il suo nuovo, elegantissimo minareto. Basta svoltare l’angolo e ci si ritrova sul fondo di un canyon. È dietro agli hammam ottomani, basta attraversare un ponte zeppo dei soliti lucchetti d’amore e si può passeggiare in questa gola cittadina attraversata da un bel ruscello, in fondo una cascata dove i turisti si fanno fotografare con scimmiette e pappagalli. Più in là, oltre Abano, alle spalle della zona turistica si estende un quartiere povero dalle case semi abbandonate o diroccate oppure occupate abusivamente. Fuori dalle porte, alcuni sedili d’auto vengono usati come sedie e tutto è ricoperto di polvere e sporcizia nelle strade fangose.
Poco lontano, Avenue David è l’opposto: l’immenso vialone di Tblisi con i palazzi in stile Liberty tenuti impeccabilmente. Potrebbe essere il centro storico di una qualsiasi città europea, ma basta svoltare in una traversa per ritrovarsi in un fatiscente angolo post-sovietico. È tra i vecchi prefabbricati comunisti e gli ippocastani che sorge “Fabrica”, appunto un’ex-fabbrica trasformata in hub moderno e ritrovo di giovani lavoratori e studenti. L’esterno è ricoperto di murales, l’interno è suddiviso in bar, mensa, ostello, co-working space dove ogni scrivania ha la sua bella bandierina ucraina. Il cortile sul retro ospita varie caffetterie.
Il quartiere della Old Town è invece un moderno centro storico con i suoi ristorantini dall’aria e dai prezzi europei. Il pezzo forte è la torre dell’orologio pendente che pare antichissima ma è stata costruita solo nel 2010 da Rezo Gabriadze, che dice ispirarsi all’impero bizantino.
Il Caucaso non è una delle mete che attirano spesso l’attenzione degli occidentali, eppure è tutto lì: monti altissimi e pascoli, religioni e guerre, occidente e oriente, vino fruttato e cucina saporitissima, resti di occupazioni ottomane, persiane, sovietiche, slancio verso l’Europa ma arretratezza, Mar Nero, casinò, grattacieli bizzarri e terme naturali, poesia e disperazione, sangue che ribolle nelle vene per il desiderio di riprendersi ciò che è proprio.
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