Sull’autostrada che da Gori porta alla capitale, le macchine si superano e si incastrano come nel gioco del Tetris, ma a 140 km orari e con una logica sconosciuta a un non caucasico. Scivolano da destra a sinistra senza frecce, superando di qua e di là, come ne hanno voglia, inserendosi miracolosamente negli spazi vuoti tra un veicolo e l’altro. Il nostro, per poco, non si schianta contro quello di fronte ma frena in tempo. Tutti i miei organi balzano in avanti e grido, ma il tassista, sorridendo con nervosismo, dice “non è successo niente” e continua appena più tranquillo.
Siamo di ritorno dalla cittadina di Gori, nel centro della Georgia, dove Stalin nacque da una famiglia umile prima di guidare l’impero sovietico. La sua casetta è stata sradicata e piantata nella piazza principale accanto a una vecchia locomotiva sovietica e al museo a lui dedicato.
Quando arriviamo, la casa-museo è già chiusa, ma un poliziotto mi fa entrare ugualmente: la piccola costruzione in legno è protetta da una struttura marmorea decorata con una stella rossa e falce e martello. Dentro, un letto, un comò e un samovar. Null’altro, per l’umile leader di un impero. Nonostante ogni pietra, ogni foglia, ogni ruga sul volto delle babushke permei astio nei confronti dell’Unione Sovietica e della sua discendente – la Repubblica Federale Russa – non rinunciano a rivendicare l’orgoglio per aver dato i natali a uni dei Capi di Stato più potenti della storia dell’umanità, mettendone da parte tutti gli aspetti negativi e positivi. “Lui era nostro. La sua forza proveniva dal suolo georgiano. Ed è questo quello che conta.”
A quattordici km da Gori c’è un’altra meraviglia georgiana: Uplistsikhe. Non solo monti, mare, vallate, sanatori abbandonati, monasteri, giardini, terme, fortezze e foreste, ma anche antichissimi insediamenti umani. Il Caucaso: tantissimo di ciò che abbiamo oggi proviene da qui, eppure molti non sanno neanche dove collocare sulla mappa la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaijan. Senza menzionare la mitica Ossezia o il Daghestan.
L’impronunciabile Uplistsikhe significa “fortezza dei signori” ed è effettivamente una fortezza scavata nella roccia ocra tra il II e III secolo a.C. – le informazioni sono discordanti. Attorno non v’erano altri insediamenti così che la gente poté abitarne le grotte in modo isolato e sicuro per millenni, fino alle invasioni, migliaia di anni dopo, dei mongoli. Da allora, la popolazione di Uplistsikhe andò sempre più in declino fino a lasciare le grotte e la chiesetta medievali in abbandono, spazzate dai venti sul ciglio del precipizio.
Il fatalismo georgiano, il loro sprezzo nei confronti della vita, appare a ogni viaggio: non importa che si sia su un mezzo pubblico o privato. Dalla stazione di Didube di Tbilisi, facendo zigzag tra i tassisti e ignorando le loro informazioni fuorvianti, con fatica si riesce a scovare la fermata dei minivan. Ne cerchiamo uno per Stepansminda o Kazbegi, ai piedi della terza vetta più alta dei monti caucasici e la seconda della Georgia.
“Fra quanto parte?”
“20-25 minuti. Sedetevi.”
Prendiamo posto nel furgoncino da 20 sedili, nel calore di luglio, fino a che il veicolo non diventa una fornace e i 20 minuti iniziano ad allungarsi all’infinito. 30, 40, 50, 1 ora…
Solo dopo un’ora e mezza la marshrutka infuocata si riempie e riusciamo a partire. A quanto ne so, in Georgia non esistono autobus di linea e le marshrutke non hanno un orario preciso. Ciò nonostante siamo in ritardo, come grida l’autista in risposta ai miei spaventati “Miedlenna, miedlenna!” “Piano, piano!”.
Più si sale e più lui accelera, toccando i 120 km orari nei tornanti senza parapetto, superando i camion diretti in Russia e gli altri veicoli, cambiando corsia con troppa facilità e bestemmiando in georgiano alle continue telefonate di gente innervosita per il ritardo. È così rosso, arrabbiato e spericolato che le opzioni sono due: ci schianteremo contro un camion in un tornante o ruzzoleremo giù in seguito a un suo infarto. Un vecchietta seduta in prima fila inizia a pregare.
Quella per Kazbegi, mezza franata e sgretolata, è “la migliore” strada di montagna in Georgia ed è anche l’unica che in qualche modo collega la Russia all’Europa dopo il blocco seguito all’invasione dell’Ucraina. Il progetto sovietico di creare un tunnel nel Caucaso fu abbandonato con la sua caduta e queste stradine impervie sono tutto ciò che si ha oggi per attraversare le montagne. Oltre il finestrino del nostro bolide sgangherato passano camion di ditte europee con targhe armene o turche. Bel modo di aggirare le sanzioni. Geopolitica a parte, rimaniamo bloccati negli ingorghi creati dai tir, fatto che non spaventa assolutamente il nostro autista. Anzi, dopo 3 quarti d’ora di bollitura e bestemmie, il pazzo decide di superare la coda chilometrica incurante dei veicoli sull’altra corsia, facendo lo slalom e premendo sul clacson. A suon di imprecazioni raggiungiamo la testa, dove un camion in discesa è bloccato tra i veicoli di destra e il fianco della montagna.
A questa vista, il nostro autista dà in escandescenze, scende dalla marshrutka, urla, litiga e fa spostare le altre macchine fino a quando, con solo la forza di volontà, riesce a disincagliare il camion. Ripartiamo, ancora più in ritardo, con ancora più nervosismo e quindi ancora più velocemente e spericolatamente. Dopo pochi minuti, qualcuno si accorge che un passeggero è rimasto a terra, ma l’autista se ne frega. Deve correre a Kazbegi. Nel bus siamo tutti silenziosi e immobili, tranne lui, che sbraita e impreca.
Un’ora e mezza di sudori freddi e preghiere più tardi, accostiamo e nella marshrutka vediamo comparire il passeggero disperso. “Ho volato” scherza riprendendo il suo posto. Le vie si allargano e gli animi iniziano a distendersi. Siamo quasi arrivati nel paesino di Stepansminda, a duemila metri di altezza.
Quando scendiamo dal minivan, tremanti e provate, ci fermiamo sulle panche di una terrazza con vista sui ghiacciai, a bere la birra più buona della nostra vita. Siamo vive.
Di fronte a noi c’è il monte Kazbeg: 5054 metri d’altitudine. Ne è valsa la pena? Sì, vale sempre la pena viaggiare. Ho scritto queste memorie la sera, nel cortile della guesthouse, circondata da una corolla di vette e pascoli e ghiacciai, ai margini del villaggio di Stepansminda, Santo Stefano.
Il giorno seguente ci siamo dirette alla chiesa di Gergeti, che domina dall’alto Stepansminda, dopo una colazione a base di zuppa di carne con un caffellatte nell’unico ristorantino aperto la mattina presto. “Tornate al ritorno”, si raccomanda il ristoratore “che vi offro un bel calice di vino georgiano. Dopo la camminata, ci sta!” Lì su, circondate da vette più alte delle Alpi nostrane, tra pascoli e ghiacciai, il vento era così forte che pareva ci avrebbe spinte giù, ma non abbiamo rinunciato a quella bellezza. Spesso, il viaggio più arduo, quello meno battuto, conduce alla vetta più alta, più bella.
Quelle cime, solo apparentemente pacifiche, sono state attraversate da migliaia di popoli nel corso dei millenni. Ora rimangono l’unico passaggio verso le leggendarie terre al di là: il Kabardino, la Circassia, l’Ossezia, la Cecenia, terre di scontri e instabilità, un mondo da esplorare.
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