Problemi di frontiere (2) - Caucaso
Un incontro, una cena speciale e un grande spavento -Parte seconda
(Inizia nell’articolo precedente)
Dopo la dogana, come per miracolo, c’era un taxi parcheggiato. Quando è tornato l’autista, abbiamo provato a spiegargli i nostri piani: niente Kars, ci avrebbe portate a metà strada, ad Ardahan, per un cifra da capogiro. Poco prima, mentre lo aspettavamo, un camionista in coda alla dogana ci aveva prese in simpatia e offerto del cibo (i biscottini più buoni del mondo. Quando non mangi per più di mezza giornata e bruci tutte le tue energie nell’impresa di comprendere come muoverti in un mondo estraneo e di come aggirare gli ostacoli posti dalle tensioni internazionali, anche i biscotti più insulsi del supermercato sembrano ambrosia). Il camionista ha capito l’imbroglio del tassista e si è offerto di risolvere la situazione affidandoci a un collega in arrivo dalla Georgia: Osman.
Senza conoscere nemmeno una parola in nessuna lingua al di fuori del turco, Osman ci ha in qualche modo spiegato che ci avrebbe portate a Hopa, sulla costa Nord, dove l’indomani avremmo potuto prendere un bus per Istanbul. Eravamo felicissime di aver trovato un passaggio gratis e ci siamo persino divertite nell’abitacolo del camion. Avevamo un punto di vista privilegiato e abbiamo scoperto, con nostra meraviglia, che il Nord-est della Turchia assomiglia al Trentino Alto-Adige. Chi avrebbe mai immaginato che quel paese arido e musulmano potesse ospitare abeti e conifere, laghi celesti e nebbia a non finire? Invece delle musiche popolari tirolesi, però, ci accompagnavano le litanie mediorientali e un odore misto di aglio, che Osman adorava, e dell’onnipresente acqua di colonia che non può mancare nella tasca di ogni uomo turco che si rispetti.
Insomma, ci stavamo divertendo un mondo fino a quando abbiamo scoperto che tra Ardahan e Artvin, sulla strada verso il Mar Nero, si innalzano monti dalle strade sterrate a duemila metri di altezza e che noi abbiamo attraversato nel bel mezzo di un banco di nebbia. Non si vedeva a più di due metri e noi eravamo in quel bestione sui tornanti d’alta montagna. Quando l’asfalto e le righe bianche ad indicarci la via sono finite, cancellate da una vecchia frana, ho quasi avuto un attacco di panico e ho cominciato a urlare di fermarci, mentre Alessia è rimasta paralizzata, sicura che saremmo finiti giù. Osman ha spento la musica per pregare Allah. Sentivo un dolore nel petto. Durante la discesa, abbiamo persino superato una macchina capovolta. Alla fine di quell’orribile mezz’ora, in una piazzola sul fondo del canyon, ci aspettava Mustafà, un collega di Osman, con la cena pronta. Sembra una scena da film - perfetto storytelling.
Abbiamo così avuto l’occasione di scoprire che i tir, sotto i container, hanno una sorta di credenza con tutto il necessario di stoviglie, spezie, tè, spugne e detersivi. Piatti e posate erano lindi come a casa e la cena squisita. Mustafà aveva preparato per noi una buonissima zuppa di patate e dell’insalata, abbiamo bevuto chai e provato a chiacchierare a gesti. Poi Mustafà ha lavato tutto con l’acqua della cisterna e siamo ripartiti.
Prima di Artvin la strada torna ad impazzire nel canyon del fiume Chorokhi e la strada è scavata sul lato della montagna. La vista era bellissima, devo ammetterlo, ma non ce la siamo goduta per niente su quei tornanti a gomito a un’altezza di 800 metri esposti sul baratro. Tremando, siamo scese ad Artvin anziché a Hopa con grande delusione da parte di Osman. Ci è dispiaciuto spezzargli il cuore perché era stato così carino con noi, ma non ne potevamo più di strade a strapiombo percorse in camion, nonostante la bravura dell’autista. Per di più era tarda sera e rischiavamo di non trovare un posto dove dormire.
Ad Artvin eravamo al sicuro, senza più tornanti, nebbia, burroni, strade scassate e lingue impossibili da parlare. Ce l’avevamo fatta: il giorno dopo avremmo preso un bus di 17 ore lungo tutta la costa sud del Mar Nero fino a Istanbul, su una strada dritta e ben fatta, con l’aria condizionata e le merendine. Avevamo attraversato tutta la regione caucasica su mezzi di fortuna, senza internet, masticando un po’ di russo e senza conoscere il turco, affidandoci al flusso della vita, all’umanità che vuole solo aiutarti. Perché la verità è che la maggior parte delle persone vuole solo essere felice, aiutare ed è buona e gentile. Non importa l’etnia, la lingua, la cultura. Gli esseri umani sanno essere crudeli in modi indicibili, ma sono solo la minoranza. Nei miei viaggi ho incontrato persone buone e disponibili. Il mondo è un posto bello, è casa nostra, le persone sono nostri fratelli – davvero, non è una frase fatta – anche quando vengono dall’altro capo del mondo. Tutti ci hanno aiutato a vivere delle esperienze che ci hanno insegnato tanto sulla vita, molto più di qualsiasi altra cosa. Starsene davanti alla TV o sui social non fa che istillare in noi la paura, la credenza che questo mondo sia pericoloso e bisogna starsene tra le quattro mura di casa.
Noi ce ne siamo andate a zonzo a vivere vere esperienze di vita e siamo tornate a casa sane, felici, più sagge: questi sono i veri miracoli, ma in pochi sanno riconoscerli.
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