Il nostro viaggio, cominciato dal punto estremo dell’Asia Centrale al confine con la Cina, procede sempre più verso occidente. Dalle Montagne Celesti, i laghi alpini e le vette imbiancante, siamo scese verso la fertile Valle di Fergana con i suoi meloni giganti, e poi avanti, fino alle oasi a ovest della Steppa della Fame: Samarcanda e Bukhara, le Perle della Via della Seta. Tutto questo ora si allontana sempre più mentre il treno notturno attraversa il deserto in direzione Karakalpakstan, la Terra dei Cappelli Neri.
Ciao, sono Alessandra! Ti saluto dal Karakalpakstan, con capitale Nukus, in Uzbekistan. Vagabondo spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia.
Di recente ho esplorato l’Asia Centrale come donna che viaggia indipendentemente, e nelle mie Lettere ti racconto questa esperienza. Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Ci siamo concesse un piccolo lusso viaggiando per una volta in prima classe: uno scompartimento con due cuccette azzurro ospedale tutto per noi e persino l’aria condizionata. A Nukus, la capitale della Regione Autonoma del Karakalpakstan, l’anno precedente c’erano state temperature massime di oltre 50 gradi.
Karakalpakstan: l’arte nel deserto, il dramma dell’Amu Darya e la fertilità della Corasmia
I karakalpaki, su carta cittadini uzbeki, sono sia etnicamente che fisicamente più vicini ai kazaki che ai propri compaesani e, come ogni etnia centrasiatica che si rispetti, ha velleità separatiste. Qualche anno fa, ogni movimento indipendentista è stato soffocato dal governo uzbeko di Islam Karimov e da allora non ne sono sorti di nuovi. Oggi, il Karakalpakstan, nell’ovest del Paese, al confine con il Kazakhkstan Occidentale e il Paese-fortezza che è il Turkmenistan, è la zona più povera e depressa dell’Uzbekistan. Ed è qui che si è compiuta la tragedia del lago d’Aral, che ha contribuito a desertificare questa regione, eccezion fatta per il Sud dove sorge l’oasi della Corasmia, condivisa con il Turkmenistan. Corasmia, un altro nome che canta, che promette magie e avventure lontane.
La Corasmia e l’algoritmo
L’oasi è conosciuta soprattutto per la città di Khiva, descritta dai grandi viaggiatori del passato, tra cui il marocchino Ibn-Batuta nel XIV secolo, come una città brulicante di vita, dagli stretti vicoli affollati di persone e cammelli. Al contrario dell’opulenta Samarcanda con i suoi minareti turchesi e le madrase mosaicate, chi arrivava a Khiva rimaneva colpito dai rigogliosi giardini e dagli alberi da frutto dopo settimane nel deserto e sotto il sole cocente. Almeno fino al Diciannovesimo secolo, quando i russi rimpiazzarono tutte le coltivazioni con la monocoltura del cotone. Quando nell’XIII secolo gli Arabi invasero l’Asia Centrale, Khiva non era che una piccola, fertile oasi della Corasmia: la città importante era Merv, nell’odierno Turkmenistan, uno dei poli più importanti e più grandi del mondo all’epoca, rasa poi al suolo dall’Orda d’Oro di Genghis Khan. Oggi, non ne rimangono che le rovine.
Ci volle molto tempo prima che Khiva guadagnasse prestigio: bisognerà aspettare la conquista da parte delle tribù uzbeke, quando, nel 1642, divenne la capitale dell’omonimo khanato, uno dei tre bramati dai russi e dagli inglesi del Grande Gioco ottocentesco, insieme a quello di Bukhara e di Kokand.
Ciononostante, non fu mai tanto potente come Bukhara e, quando i delegati britannici arrivarono per convincere il khan a liberare gli schiavi russi e ad allearsi con l’impero della regina dall’altra parte del supercontinente, trovarono una città decadente, sporca e povera, dove l’antico splendore sembrava ormai un ricordo lontano. Eppure, mille anni prima, l’Asia centrale era stata il cuore pulsante della conoscenza. Il fermento intellettuale dell’epoca fu reso possibile anche dalla disponibilità della carta, inventata in Cina circa duemila anni fa e diffusasi presto in Asia centrale. A Samarcanda, però, gli artigiani scoprirono che con le fibre della pianta del cotone potevano produrre una carta più sottile e più a buon mercato rispetto alle fibre di gelso e bambù usate nel Regno del Centro. Questa innovazione fece di Samarcanda il principale esportatore di carta verso l’Occidente, contribuendo alla diffusione della conoscenza.
Oggi Khiva è una città confezionata a misura di turista, dove si paga un ticket d’accesso per visitare il centro storico ricostruito per far piacere agli occhi dei visitatori. Il nucleo forte e reale del momento è Nukus.
Nukus si trova a pochi chilometri dal confine con il Paese del dittatore Turkmenbashi e dei suoi successori, Berdimuhamedow Senior e Berdimuhamedow Junior.
Li separa il fiume Amu Darya, conosciuto anche come Oxus, che un tempo rappresentava una via di comunicazione fondamentale per le popolazioni eurasiatiche. L'Amu Darya nasce nelle montagne del Pamir, nel lontano Tajikistan. In passato aveva una portata di limo superiore a quella del Nilo e costeggiava antiche foreste abitate da tigri, cinghiali e altre specie selvatiche. Era l'arteria vitale dell'Asia centrale, un territorio ricco di laghi e oasi che, con i suoi alberi da frutto e i campi coltivati, veniva descritto come estremamente fertile. Questo ecosistema prosperava grazie alla vita dei carovanieri e degli abitanti stanziali, che contribuivano a rendere la regione vivace anche sul piano intellettuale. Ad esempio, è in Corasmia che nacque l'algebra.
Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, tra i più celebri matematici della storia, proveniva proprio dalla Corasmia, come suggerisce il suo nome. Vissuto tra il 780 e l’850, è considerato il padre dell’algebra: il termine stesso deriva dal titolo del suo trattato, Al-Jabr w’al-Muqabala, che significa “reintegrazione e semplificazione”. Non solo: in Occidente era conosciuto come “Algoritmi”, una fusione tra al-Khwarizmi e arithmós (numero in greco), che ha dato origine al termine “algoritmo”.
Oltre all’algebra, al-Khwarizmi contribuì alla trigonometria sferica e alla geografia, tracciando con precisione le coordinate di ben 2.402 punti della Terra.
Amu Darya, niet vady
Oggi, percorrendo la zona in autobus o in treno, dal finestrino si può osservare un paesaggio desolato, dominato da cristalli di sale e da arbusti rinsecchiti. L’Oxus, un tempo un fiume maestoso, è ormai ridotto a un misero rigagnolo che scorre marrone ai margini della città.
Il lungo ponte che attraversa un larghissimo letto ormai quasi del tutto prosciugato è quasi ironico, una beffa alla situazione odierna. Alessia e io palpitavamo per l’emozione di essere al cospetto dello storico fiume che ha sostenuto la vita degli scambi eurasiatici, prima di scorgere quel melanconico torrentello che è diventato.
“Amy Darya” indica scuotendo la testa un’anziana donna nella marshrutka. “Niet vady”. Niente acqua.
Nukus è l’opposto delle Perle della Via della Seta visitate nei giorni precedenti. Fu costruita dai sovietici e oggi è una grande città di ampi viali alberati e complessi residenziali staliniani. Non bella nel senso classico, ma è una boccata d’autenticità dopo le stucchevoli riproduzioni di Samarcanda e Bukhara. Vi si viene per un solo motivo: visitare il museo Savitsky, il secondo più importante dell’ex URSS sulla pittura avanguardista russa. Il complesso museale, insieme al fondale prosciugato del quarto lago più grande del mondo, è l’unica cosa che attrae i turisti nel dimenticato Karakalpakstan. È un edificio ricostruito nel nuovo stile uzbeko, lo stile creato ad hoc per turisti, con mattoni canditi sormontati da piramidi di vetro blu. Del museo fondato dal collezionista ucraino nel 1966 rimangono solo le opere.
L’avanguardia nel deserto
Igor Savitsky nacque nel 1915 a Kyiv in una famiglia benestante. Il nonno materno, professore universitario, possedeva una biblioteca di dodicimila libri e fu ucciso dai bolscevichi in quanto ricco e intellettuale. Durante gli anni dell’Unione Sovietica, la famiglia di Savitsky cadde in disgrazia e Igor divenne elettricista, senza però mai smettere di studiare disegno. Non appena poté, continuò gli studi a Mosca e fu presto ricollocato a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan. Negli anni Quaranta fu mandato in Corasmia come disegnatore per una missione archeologica dove lavorò per otto anni e si innamorò della cultura karakalpaka. Collezionò ottomila pezzi d’artigianato e, conclusasi la spedizione, si trasferì definitivamente a Nukus. Mise da parte la carriera d’artista per votare la propria vita alla ricerca e alla conservazione delle opere d’arte di artisti russi riparatisi in Uzbekistan o che si nascondevano dalle autorità sovietiche. Comprava le opere dalle famiglie e dalle vedove degli artisti, alcune utilizzate per tappare i buchi nei tetti o senza più le cornici che erano state strappate per divenire legna da ardere nei mesi più freddi. Riuscì a creare un impero artistico nella remota Nukus, con il beneplacito del governo socialista. Morì senza famiglia e senza possedere nulla, ma lasciando al mondo una grande eredità.
Gli oggetti e le opere da lui raccolte sono oggi conservate nel museo Savitsky e in quello delle arti del Karakalpakstan. Venire fino a Nukus per visitarli è d’obbligo, nonostante i chilometri da macinare. I musei, come spesso accade in Asia, non sono ben fatti: manca qualsiasi tipo di informazione e ogni tanto vengono infilati modellini delle città e altre cose che non c’entrano nulla, come animali impagliati, tra cui una tigre strabica che sbrana la testa di un cinghiale. Dopo anni in Asia, tuttavia, non sono ancora diventata immune a questo tipo di delusione. A Nukus non c’è molto altro, a parte dei bei mosaici comunisti sulle facciate del brutalista hotel Tashkent.
Nukus e l’autenticità sovietica
Quella sera stessa, dopo esserci riposate dal gran caldo del deserto e senza più Madama Rose e il suo giardino segreto, decidiamo di vagare per la città, ora che non ci sono più i 41 gradi pomeridiani. L’unica attività sociale pare essere una visita allo squallido lunapark sul lungo canale, pieno di famiglie e coppiette. Arriviamo proprio nel momento in cui c’è un blackout e la gente è bloccata, al buio, sulla ruota panoramica. Viva la sicurezza. Quando ritorna l’elettricità, abbiamo il tempo per fare un po’ di people-watching: una cosa che colpisce qui in Karakalpakstan è che pochissime donne portano il velo e nessun uomo lo zucchetto, incontriamo persino una ragazza in top e minigonna e vari alcolisti riversati sui marciapiedi. L’esatto opposto della Valle di Fergana, la regione più islamica dell’Asia Centrale. Forse il suo essere remota, ha in qualche modo reso la Terra dei Cappelli Neri più emancipata, più immune al ritorno in auge dell’Islam dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Noi, al contrario, non siamo per niente dispensate alle solite domande. “Where are you from?” o il classico “sei sposata?” rimangono una costante, anche sotto i neon di un lunapark dalle giostre arrugginite.
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