Scrivo dal giardino della Evergreen Guest House sotto un pergolato di viti e grappoli d'uva acerbi. L’aria nella Valle di Fergana è fresca: ieri sera ha piovuto e i fiori, le palme, gli alberi si sono schiusi riempiendo l’aria di effluvi. La penna scivola sulla pagina del mio quaderno con in copertina un acquerello della Madonna della Salute di Venezia, Alessia legge, i gestori stanno preparando un’abbondante colazione uzbeka.

Ciao, sono Alessandra, viaggio a tempo pieno e scrivo di luoghi lontani. Sono andata fino alla Valle di Fergana per vedere come si fa la seta e per mangiare le buonissime ruote di pane uzbeko, il non. Iscriviti gratuitamente per leggere storie dall’Oriente.
Siamo arrivate ieri con un treno veloce da Tashkent: con 9,95 euro abbiamo raggiunto in cinque ore la Valle di Fergana attraverso i monti che racchiudono questo scrigno diviso da Stalin nel 1924. Tracciando in modo arbitrario linee tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, tranciò un mix di popoli che per secoli aveva collaborato in armonia. A causa di ciò, la Valle negli ultimi decenni è stata teatro di violentissimi massacri tra etnie, una cosa del tutto nuova sorta con il nazionalismo nato in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica.1
Margilan, la nostra prima meta a Est dei monti, è famosa per le fabbriche di seta. Secoli fa qualcuno trafugò il segreto per la produzione della “stoffa dei sogni” ai cinesi che avevano il monopolio del suo commercio tra l’Estremo Oriente e Roma e oggi, qui, si produce una delle sete più pregiate dell’Asia. Margilan ha costituito per secoli una tappa fondamentale sulla Via della Seta, tra i monti Alaj nei pressi di Samarcanda a ovest, e Kashgar, situata nell’odierna Cina.
Le strade che univano la Cina al Mediterraneo vedevano trasportati carichi di svariate merci, sia da Est a Ovest che da Ovest a Est: cavalli, porcellana, carta, spezie. Solo un prodotto, il più pregiato, diede il nome a quella via, che in realtà racchiudeva percorsi che si diramavano in molteplici direzioni: la seta. Le élite romane apprezzavano in particolar modo questo tessuto raffinato, che cominciò a circolare nell’Impero già dal primo secolo a.C. Sulla sua origine circolavano le dicerie più fantasiose: Virgilio credeva che la seta si estraesse dalle foglie di un albero speciale, Plinio il Vecchio riteneva che fosse una sorta di lana, mentre Strabone pensava che si originasse dalla corteccia degli alberi indiani. Da Xi’An a Roma, i due estremi della Via della Seta, intercorrono ottomila chilometri e ci voleva oltre un anno per trasportare un carico da un capo all’altro, carico che passava in mani diverse, così che l’origine del prezioso tessuto rimase sconosciuto ai romani.
Inoltre i cinesi erano così gelosi del loro segreto da condannare a morte chiunque lo spifferasse in giro. Tutto vano: sappiamo che nei primi secoli d.C. si iniziò a produrre la seta in India e nel X secolo Mery, una delle città più grandi dell’antichità situata nell’odierno Turkmenistan, ai margini del deserto, ne divenne il maggiore esportatore verso l’Europa, superando la Cina stessa.
La colpa, vera o immaginaria che sia, viene attribuita a due monaci nestoriani che, si dice, nascosero uova di bombice di gelso – il baco da seta – nei loro bastoni cavi di bambù per contrabbandarli a Costantinopoli nel 550 d.C. Tutto ciò che ruota intorno alla seta si mescola alla leggenda, come anche la sua invenzione: si narra che Xi Ling Shi, moglie di Huangdi, l’Imperatore Giallo, la scoprì per caso mentre sedeva a bere il tè nel suo giardino. Un bozzolo di farfalla cadde nella tazza dal gelso sotto il quale l’imperatrice era accomodata e quando fece per tirarlo fuori, notò come si dipanava un lunghissimo, sottilissimo filamento. Correva l’anno 2640 a.C.
Tuttavia gli archeologi affermano che la produzione della seta sia ancora più antica e risalga circa al quarto millennio a.C. Gli europei si dedicarono alla sua produzione solo nel XIII secolo d.C., ma non riuscirono mai ad uguagliare la qualità asiatica. Nel frattempo, gli uzbeki affinarono al massimo la propria produzione, divenendo tra i migliori del mondo fino al giorno d’oggi.
Vagando per Margilan, giardino fertile in un mondo diviso tra vastissime steppe e aridi deserti, io e Alessia ci siamo ritrovate a bussare a un portone di legno alla ricerca della seta. Una ragazza con il capo coperto ci ha invitate in un cortile dove altre due donne filavano a un telaio tradizionale e una bimba di circa un anno ci osservava con gli occhi spalancati. Nessuna sapeva né una parola di russo né di inglese, ma provavano imperterrite a mostrarci come si filava la seta sulla loro verandina in legno con incisioni alla foggia orientale. Svolgevano il loro monotono lavoro sorridendo e chiacchierando mentre l’infante teneva tra le mani un giocattolo dal quale fuoriuscivano canzoni per bambini in inglese. Abbiamo fatto qualche foto e video senza poter comunicare se non a gesti. Era un luogo pacifico, intimo, prettamente femminile. Un’alcova di pace nel mezzo della città di cemento.
Le nostre idee idilliache sulla produzione della seta sono svanite quando abbiamo deciso di andare alla fabbrica consigliata da tutti. La guida, un giovanotto arrogante che parlava in un inglese pressoché incomprensibile, si atteggiava a tiktoker e ostentava un accento falsamente americano che rendeva la comprensione complicata. Con molta fatica abbiamo cercato di seguire la spiegazione sul processo di bollitura dei bachi da seta e su come si estraggono i filamenti. Nella stanza dedicata a tale mansione c'era una signora che non faceva nulla, pareva messa lì a bella posta. Stessa storia nella stanza del “design”, dove un gruppo di uomini stava in cerchio a chiacchierare e a bere tè. Scherzando ho chiesto se fossero dei veri dipendenti o degli attori messi lì per i turisti.
“Non sono attori, discutono sul disegno per i prossimi rotoli”, mi ha risposto la guida infastidita prima di abbaiare qualcosa ai dipendenti.
Il laboratorio dei colori, invece, era vuoto, eccezion fatta per dei rotoli di tessuto e dei barattoli di colore. Poco oltre tre donne lavoravano al telaio tradizionale simile a quello visto nell’idillio casalingo quella mattina.
“Riescono a produrre cinque metri di seta al giorno e dieci di cotone.” Non abbastanza per soddisfare la richiesta mondiale di seta. È per questo che, subito dopo, ci siamo ritrovate all’inferno: nei due capannoni della fabbrica della seta sono poste decine di enormi macchinari che producono chilometri e chilometri di ordito e tessuto in una diabolica cacofonia di rumori. A manovrare ognuna delle macchine sta una donna con il capo velato: vi trascorrono otto ore al giorno, da anni. Per noi è stato impossibile rimanere lì dentro più del tempo necessario per una fotografia, tanto forte e perforante era quel rumore metallico.
“Non fornite delle cuffie protettive alle lavoratrici?” ho chiesto al fastidioso giovanotto non appena siamo tornati nella pace del giardino.
“Ce le hanno, ma non vogliono usarle”, ha riposto liquidando la faccenda con un gesto della mano. Sono tuttora scettica che un essere umano preferisca lo sbattere di quei mostri che indossare delle scomode cuffie. La mia seconda domanda su quanto guadagnassero quelle donne è rimasta senza risposta.
“Il giro è finito, volete acquistare qualcosa?”
La seta ha origine dai bozzoli della farfalla Bombyx mori, cioè il bombice del gelso. Nei suoi ultimi giorni di vita, questa farfalla depone circa 500 minuscole uova e poi muore. 1.000 uova pesano circa un grammo. Le uova si schiudono in primavera, nel giro di poche settimane. L’ambiente circostante deve essere tranquillo e silenzioso, poiché i bachi sono così delicati che potrebbero morire a causa di rumori improvvisi, odori forti, variazioni di temperatura o poca igiene. I bachicoltori, per seguirli giorno e notte, si organizzano con turni di veglia.
I bachi iniziano subito a mangiare una quantità spropositata al loro peso di foglie di gelso fresche, raccolte dopo l’evaporazione della rugiada e servite circa ogni mezz’ora. Nel loro primo mese di vita, i bachi crescono a dismisura mentre i bachicoltori si occupano di mantenere le teche pulite, la temperatura perfetta e il silenzio. Dopo quattro mute, quando hanno raggiunto circa cinque centimetri di lunghezza e un peso migliaia di volte superiore rispetto a quello della nascita, iniziano a filare per tre giorni consecutivi, in movimenti a forma di otto, sino a che non sono avvolti nel bozzolo, prodotto dal lavoro delle ghiandole salivari che producono la fibroina, che si trasforma in due fili di seta uniti dalla sericina, una sorta di colla prodotta sempre dalle ghiandole.
I bozzoli vengono allora immersi nell’acqua bollente per far sciogliere la sericina. I bachi, ormai morti, galleggiano all’interno del bozzolo che viene srotolato fuori dal calderone con dei bastoncini di legno. I fili giallastri vengono lasciati asciugare, per poi essere trattati e colorati prima di venir filati dalle donne ai telai tradizionali o negli infernali capannoni, così che chiunque voglia possa godere di capi di vestiario lisci e quasi impalpabili. I pochissimi bachi fortunati che sono lasciati liberi di portare a termine la metamorfosi, diventano farfalle dopo circa due settimane, pronte a deporre altre centinaia di uova prima di morire.
Parlo approfonditamente dei massacri etnici della Valle di Fergana in questo articolo:
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Il momento della bottega di seta mi è piaciuto tanto, peccato che l'idillio si sia spezzato con la dannata fabbrica 😢
Ricordo tempo fa di aver letto che pare sia stata una principessa che, per vendicarsi del padre che l'aveva obbligata a sposare un principe che lei non voleva, si nascose dei bachi da seta tra i capelli raccolti in una complicata acconciatura. Non so se scopriremo mai come il segreto della seta si sia diffuso ... :-)