Alla ricerca del leopardo delle nevi
Nonché un excursus sui grandi danni dell'Unione Sovietica
Il Kirghizistan, paesino montuoso dell’Asia Centrale stretto tra Cina, Kazakhstan, Uzbekistan e Tajikistan, non è certo una delle mete turistiche più gettonate. Prima della mia partenza, in molti mi hanno guardato con perplessità, alzando un sopracciglio e chiedendomi: "Dove vai? In Tarikistan?". In Italia, questo territorio di meno di 200.000 chilometri quadrati, percepito come poco rilevante, è quasi sconosciuto. La nostra attenzione è più spesso rivolta verso attori più influenti: Iran, Israele, Russia, Stati Uniti. Un qualsiasi "-stan" può al massimo evocare immagini di conflitti, specie se associato a Paesi come l'Afghanistan, per esempio.
Eppure il Kirghizistan è ben altro. La sua forza risiede nella natura quasi incontaminata e nella storia, anche se non vi si trovano monumenti antichi come il Colosseo o la Muraglia Cinese e le città di calcestruzzo immerse nei pioppi e nei salici sono lontanissime dall’immagine di “città d’arte” alla quale siamo abituati in Europa. I musei espongono semplici testimonianze della vita quotidiana dei nomadi e documenti su figure politiche slave, come Michail Frunze, accanto a opere di qualche pittore contemporaneo, spesso collocate in edifici brutalisti costruiti dai sovietici, che riflettevano la loro visione spartana di una città-utopia funzionale al proletariato.
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Il Kirghizistan e l’Unione Sovietica
La storia kirghiza si nasconde nelle pieghe del tempo e scoprirla è un viaggio tanto reale quanto quello fisico. Per millenni, l’Asia Centrale è stata il crocevia tra l’Estremo Oriente e l’Europa, con scambi di spezie, sete, matematica, scritture e armi, senza che i due mondi sapessero molto l'uno dell’altro. Grazie a questa regione, il nostro ipercontinente ha potuto svilupparsi sia dal punto di vista culturale che di quello tecnologico, in una storia complessa e condivisa.
Non si va in Kirghizistan a caccia di rovine antiche, eccezion fatta per qualche caravanserraglio abbarbicato sui passi d’alta montagna, ma per capire come siamo tutti legati da una rete di connessioni storiche. Si va anche per comprendere la storia più recente, quella dell’Unione Sovietica, i cui effetti si trascinano fino a oggi: basta aprire un notiziario qualsiasi. Forse è un effetto collaterale del grande “spreco” dell’URSS: lo spreco di un sogno e delle vite di migliaia di persone, impegnate a inseguire un ideale che esisteva solo nelle menti di pochi visionari; lo spreco delle speranze di chi si spostava da un capo all'altro dell’Eurasia con la fede di poter contribuire alla costruzione del più grande impero sulla Terra, solo per poi rimanere a mani vuote, con pochi denti in bocca e circondati dall’alone di miseria che i grandi viaggiatori ricordano essere lo stesso dalle Isole Curili all’Ucraina.
Il Kirghizistan fu uno degli ultimi paesi a separarsi dall’Unione Sovietica, e lo fece con riluttanza. Mentre altre nazioni colsero l’opportunità di ottenere l’indipendenza, ai kirghizi beneficiavano gli investimenti sovietici, e tutt’oggi, a trentatré anni di distanza, circa il 30% del PIL del paese proviene dalle rimesse di chi lavora in Russia.
Breve excursus sui danni dell’URSS
A differenza di altre repubbliche sovietiche, il Kirghizistan non ha subito disastri ecologici su vasta scala come Chernobyl in Ucraina, Semipalatinsk in Kazakhstan o la desertificazione causata dalla monocoltura del cotone in Uzbekistan, che ha quasi prosciugato l’Aral, una volta il quarto lago più grande del mondo.
“Amu Darya, niet vady”, mi ha detto sconsolata una signora sulla marshrutka da Nukus alla città fantasma di Moynaq mentre attraversavamo il ponte su quel che restava dell’immenso letto quasi vuoto di uno dei fiumi più importanti per l'Asia Centrale e per la Via della Seta. Indicava il rivolo sottostante con il dito incartapecorito: “Quello è l’Amy Darya, non c’è più acqua.”
Ma questa è un'altra storia.
Il Kirghizistan non soffrì molto l’Holodomor, che deriva dall’ucraino “moryty holodom” cioè “infliggere la morte mediante la fame”, ovvero la Grande Carestia che negli anni '30 decimò milioni di vite in tutto l’Impero e in particolare in Ucraina e Kazakhstan. Nel centro di Kyiv c’è la statua di una bambina rachitica con delle spighe di grano tra le mani, alle sue spalle arde un fuoco eterno in memoria delle vittime.
L’Holodomor fu causata sia dalle repressioni delle ribellioni nei kolchoz sia dalla rigidità del sistema sovietico, che imponeva a ogni repubblica compiti specifici senza considerare le caratteristiche del territorio o della popolazione. L'Uzbekistan, ad esempio, era obbligato a produrre tutto il cotone per l'Unione, che veniva poi spedito a Mosca per essere trasformato in abiti e rivenduto in tutte le repubbliche a un prezzo venti volte superiore, compreso lo stesso Uzbekistan. L’Ucraina, conosciuta come il "granaio d’Europa", aveva il compito di sfamare tutto l’Impero, mentre il Kazakhstan, un'immensa distesa di steppe sterili, fu costretto a un'agricoltura innaturale e alla trasformazione dei nomadi in contadini. Ciò provocò disastri sia per la terra, incapace di sostenere coltivazioni così intensive, sia per la popolazione.
Durante la collettivizzazione forzata dell'Unione Sovietica, tra il 1930 e il 1933, il Kazakhstan fu uno dei territori più colpiti, con quasi un milione di persone morte di fame. La campagna per la sedentarizzazione dei nomadi, condotta in modo brutale e disorganizzato, causò un cataclisma demografico e sociale. I Kazaki, piuttosto che cedere il proprio bestiame e il grano, preferirono distruggerli, provocando la scomparsa di metà del patrimonio zootecnico del paese. Molti cercarono di fuggire in Cina, ma solo un quarto dei fuggiaschi riuscì a sopravvivere al duro viaggio; molti altri furono uccisi dai bolscevichi. La Grande Fame non risparmiò neanche funzionari e insegnanti, minando così l’intera società.
Tutto nacque nel 1929, durante la XVI Conferenza del Partito Bolscevico, quando si decretò che entro l’autunno del 1930 la maggior parte dei contadini dell’Impero, pari a tre quarti della popolazione (circa 100 milioni di anime), dovesse essere inclusa nei kolchoz, le fattorie collettive. Questa campagna, nota come collettivizzazione generale, incontrò una resistenza da parte dei contadini, che si ribellarono in numerose regioni.
Per reprimere le rivolte, Stalin adottò due strategie: la deportazione dei dissidenti nei lager siberiani e la sottomissione mediante la fame. Tra tutte le repubbliche colpite, l’Ucraina fu quella che subì le conseguenze più gravi.Fatto interessante, le principali vittime furono gli uomini, oltre ai bambini naturalmente.
Le autorità di Mosca imposero requisizioni di grano, carne e ortaggi ben al di sopra delle capacità produttive del paese. Per raggiungere i loro obiettivi, i funzionari sovietici usarono metodi brutali, confiscando ogni risorsa disponibile ai contadini, che si ritrovarono senza nulla da mangiare già a partire dal 1930. La Grande Fame durò per sette anni, ma il 1933 fu il periodo più oscuro.
Si stima che la politica stalinista di collettivizzazione e le carestie che ne derivarono abbiano causato la morte di un numero che va dai 5 ai 7 milioni di ucraini. Il terrore psicologico e la disperazione dilagavano: la gente si trasformava in nemica di se stessa, uccidendo per un frutto rubato o nutrendosi di cortecce d'albero, suole di scarpe, cani, e persino dei propri figli. Ryszard Kapuściński, nel suo libro Imperium, descrive con grande lucidità e intensità le atrocità di questo periodo, basandosi su testimonianze dirette.
Oltre alla “morte per fame”, per reprimere l’opposizione dei contadini, il governo sovietico chiuse scuole, ambulatori medici e negozi nei villaggi, vietando ai contadini sia di lasciare le proprie comunità che di entrare nelle città. Nelle aree urbane si diffondeva la falsa narrazione che la scarsità di cibo fosse causata dalla pigrizia dei contadini, alimentando divisioni tra la popolazione. Interi villaggi, soprattutto in Ucraina e in Kazakhstan, furono spazzati via. Scomparvero.
Nel 1932 fu promulgata la cosiddetta “legge delle spighe” (zakon o koloski), che prevedeva punizioni severe per chiunque fosse sorpreso a rubare anche una minima quantità di grano dai campi collettivi. Le pene includevano: la condanna a morte mediante fucilazione per i reati più gravi, condanne a dieci anni di prigione nei campi di lavoro forzato per reati minori o per chi avesse rubato piccole quantità di cibo, la confisca totale dei beni per i colpevoli.
La legge era così rigida che non faceva distinzione tra furti su larga scala e piccoli furti per fame. Persino chi raccoglieva spighe cadute a terra poteva essere condannato a lunghi anni di prigionia nei Gulag.
Un’altra causa di morte era il raro aiuto delle squadre di soccorso dalle città che portavano pane nei villaggi. La popolazione, affamata, ne mangiava in modo compulsivo, rischiando di morire per indigestione. Le perquisizioni delle case, effettuate dalle autorità alla ricerca di cibo nascosto, erano tra i momenti più traumatici: ogni cosa veniva distrutta, e chiunque fosse sorpreso con riserve alimentari veniva imprigionato. Stalin, temendo che l’utilizzo di metodi più rapidi e visibili come le camere a gas potesse rivelare la portata del genocidio, mantenne la narrazione secondo cui “i contadini morivano di fame perché non volevano lavorare”.
Il Kirghizistan, al contrario, soffrì molto meno e la separazione dall’URSS non fu violenta. Ancora oggi, nelle sue città, si vedono statue di Lenin che puntano il braccio verso un'unica direzione comune. Sulle facciate dei palazzi, le stelle rosse e i simboli della falce e del martello in ferro battuto resistono al tempo. Le relazioni con la Russia rimangono buone, anche se il popolo kirghizo percepisce una certa oppressione dal gigante guidato da Vladimir Putin, che continua a sfruttare le risorse del paese: l’oro, il cotone, la carne, i minerali per l’arsenale
La natura in Kirghizistan
Non solo crocevia di popoli e storie, il Kirghizistan offre anche una natura quasi incontaminata. Oggi, è forse questo il principale motivo per visitare il piccolo paese centrasiatico: le sue montagne, i laghi alpini, i ghiacciai, le foreste, gli altipiani popolati da nomadi, le formazioni d'arenaria e le cavalcate lungo la Via della Seta.
Alla ricerca del leopardo delle nevi - La gola di Ala Archa
A 40 km da Bishkek, alle pendici dei monti Alatau, c’è il parco nazionale di Ala Archa. Come al solito, arrivarci in modo indipendente non è stato facile. Con l’app di Yandex (il Google russo) abbiamo chiamato un taxi che ci ha portate lì per 851 som (circa 9 euro) mentre al ritorno ne abbiamo pagati 2.000 (circa 22 euro) con l’unico taxi disponibile scovato all’ingresso del parco.
Ala Archa è una gola tra le montagne celesti – i Tian Shan – che ospita marmotte, capre selvatiche, cervi, volpi e gli elusivi leopardi delle nevi. Inutile dire che, a parte uccelli di varie speci, non abbiamo visto nessun animale. Tuttavia non è stata per niente un’escursione deludente: ad Ala-Archa si possono fare diverse passeggiate, da quelle più semplici che arrivano alle cascate fino a quelle che raggiungono i ghiacciai, se si ha un’attrezzatura adeguata. I Monti del Cielo si innalzano tutt’intorno con i loro cappucci bianchi sopra il verde lussureggiante della gola. L’aria è così pulita rispetto alla capitale che dopo la camminata ci è venuto il mal di testa e il naso colava, ma il giorno dopo eravamo rigenerate, come pulite dentro. Il Kirghizistan ha tra i luoghi naturali più puri e più belli del pianeta.
Il lago Issyk-Kul - il secondo più grande lago alpino del mondo
Tamga è una piccola città sulla sponda sud del lago Issyk-kul, il secondo più grande lago alpino del mondo, nonché il decimo più profondo, e copre un vasta parte del territorio nordorientale del Kirghizistan. Io e Alessia abbiamo viaggiato con le onnipresenti marshrutke lungo la sponda sud e ci siamo fermate a Tamga, cittadina lambita dalle sue acque. Da Kochkor, dove eravamo ridiscese dal lago Song-Kul, avevamo preso un taxi condiviso per Balykchy (250 som a testa, 2,70 euro), a ovest del lago Issyk-kul, e da lì una marshrutka polverosa e senza ammortizzatori fino a Tamga (350 som, 3,80 euro).
Dopo tre ore di strade sconnesse e polvere infilitratasi in ogni angolo del nostro corpo e dei nostri zaini, siamo smontate a Tamga. Purtroppo il relax sulle sponde del lago è durato pochissimo e abbiamo dovuto riparare nella foresteria della guesthouse di Liuba, una kirghisa di etnia russa che assomiglia in modo inquietante a Vladimir Putin, il cui giardino, però, è un angolo di meraviglia pieno di fiori di tutti i tipi e peri, ciliegi e melograni. Quando ha smesso di piovere, il profumo della natura al culmine dello splendore estivo si spandeva nell’aria, insieme al cinguettio dei passeri e ai fischi dei merli.
A Tamga, che in fondo è un paesino di circa 3000 abitanti, abbiamo provato uno dei pochissimi ristoranti della città, se così si può definire quel locale dalle panche basse e le tovaglie di plastica sui tavoloni: il caffè Nur, uno dei luoghi dove abbiamo mangiato meglio in tutto il viaggio.
La servizievole proprietaria, eccitatissima nel vedere, una volta tanto, turiste non kazake, ci ha servito una zuppa di verdure e dei deliziosi “manti” (ravioloni) di carne di cavallo fatti a mano da lei stessa. Anche i noodles li fa lei, quelli spessi e tondi che si avvolgono alle mani e si allungano all’inverosimile con un artistico e rapido movimento delle braccia. Abbiamo mangiato molto bene e speso poco più di tre euro a testa, lì all’ombra dei monti dalle cime ghiacciate. Più tardi abbiamo riprovato a stenderci sul lungo lago senza successo: è venuto a piovere di nuovo. Allora abbiamo deciso di andare a Karakol: facendo l’autostop si è fermato un taxi che stava scorazzando un’anziana signora americana. Siamo scese a Jeti Öguz e lì abbiamo aspettato per un tempo indefinito una qualsiasi marshrutka che ci portasse in città per 40 som (meno di mezzo euro).
Jeti Öguz - Formazioni in arenaria e sanatori
Jeti Öguz è uno di quei posti dove ti vien voglia di viverci. All'ingresso delle vallate si ergono imponenti formazioni rocciose di arenaria dal rosso brillante, che contrastano con la profonda vegetazione circostante. Il paesaggio ti avvolge mentre cammini tra queste pareti quasi marziane e, di fronte, i boschi di conifere si estendono fino all’orizzonte, dove i monti rocciosi, coronati dai ghiacciai, sbarrano la scena. Un torrente scorre allegro, serpeggiando tra le yurte e le fattorie locali. I bambini cavalcano sereni e asini e vacche brucano pacifici sui prati.
Una donna con occhiali da sole e orecchini alla moda si avvicina con una caraffa di kumis, il tipico latte di cavalla fermentato, mentre suo marito, come da tradizione, ci rivolge mille domande. "Atkuda?" – Da dove venite? "Ah, Italyia. Rim?" – “No, non siamo di Roma, siamo di Venezia". "Ah, Veniezia," dice mimando il gesto del remare. Poi prosegue con la solita domanda in queste zone: "A vyi iest muzh?" – “Dov’è il marito?”
Attraversato il fiume, compare un’altra scena: un enorme edificio grigio, dall’aria trascurata ma non abbandonata. Si tratta del sanatorium, un retaggio dell'epoca sovietica, una sorta di spa. Le pubblicità scolorite sulle pareti promettono ancora saune, massaggi e altri trattamenti di benessere. Questo tipo di struttura, diffuso in tutta l'ex Unione Sovietica, aveva lo scopo di fornire cure termali e trattamenti rigeneranti a lavoratori e cittadini, combinando elementi di relax con cure mediche. I sanatori sovietici erano parte integrante del sistema sanitario, offrendo soggiorni sovvenzionati dal governo in località montane, marittime o termali, dove ci si poteva riprendere da stress e malattie, attraverso una vasta gamma di trattamenti che spaziavano dalle terapie naturali alle tecnologie mediche più avanzate dell’epoca.
A Tskaltubo, in Georgia, non lontanto da Kutaisi, se ne trovano vari, oggi in totale stato di abbandono. Alcuni sono occupati dai fuggitivi delle repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia. Io e Alessia li abbiamo visitati nel 2022, durante il nostro primo giro del Caucaso.
Il sanatorium di Jeti Öguz, con il suo aspetto austero e le promesse sbiadite, fa parte di questa tradizione, anche se oggi pare quasi fuori luogo in un mondo che scorre più veloce. Qui, come in molte altre zone naturali del Kirghizistan, non c’è campo per internet, una mancanza che all’inizio provoca un po' di ansia, ma che presto svanisce con il fruscio del vento e l'aroma rilassante delle erbe selvatiche.
Il caro
ha vissuto in Kirghizistan per tre mesi. Nel suo profilo trovi tantissimi articoli sui posti più belli da visitare nel paesino centrasiatico. Te li consiglio.Lettere dall’Oriente è e sarà sempre gratuito. Ogni articolo è frutto di lunghe ore di scrittura, di studio e di revisione: gli daresti del valore e te ne sarei grata qualora decidessi di supportare questo piccolo progetto.
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La seguente Lettera non è dal Kirghizistan, ma parla di sanatori sovietici abbandonati.
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Ciao Alessandra, grazie per questo lungo pezzo. Davvero bello. Mentre leggevo ho fatto due collegamenti con la mia esperienza: in primis, ricordo che quando stavo attraversando la Russia ho sentito le sue città come "senz'anima" e, per qualche ragione, ho associato questa mia sensazione al fatto che negli anni dell'URSS un sacco di gente è stata costretta a trasferirsi a migliaia di km da casa propria perdendo così il contatto con le proprie radici (ripeto, mia sensazione).
Mentre per quanto riguarda i sanatori, mi hai fatto tornare alla mente Prora, una delle espressioni della follia nazista sul Mar Baltico. Anche qui, l'idea era quella di mandarci in "vacanza" gli operai più meritevoli e il tutto veniva pubblicizzato dall'associazione Kraft durch Freude, ovvero "forza dalla gioia" (traduzione mia) che ovviamente di "gioioso" non aveva nulla. Insomma, cambia il tempo, cambiano i luoghi ma certa fuffa resta uguale. Riusciremo ad emanciparci definitavamente da certi meccanismi?
Che cosa significa edificio brutalista? 🧐