Ci sono tre grandi approcci nei confronti delle cose antiche. Il primo è il restauro: riportare all’antico splendore ogni cosa. È così che in Italia, culla di una quantità incommensurabile di opere d'arte ed edifici di altri tempi, trattiamo – o almeno ci proviamo – le vestigia del passato. Palazzi Ducali e Reali, cappelle, basiliche, cupole, angeli e santi sembrano quasi stati creati ieri, ma senza perdere l’aura di irraggiungibilità che solo il passato può dare. Nel Cinquecento, a Venezia, si facevano scommesse sulla costruzione del Ponte di Rialto, eppure non solo è stato edificato con successo, ma è ancora là, come nuovo, su 12.000 legni immersi nel fango a imperitura memoria che l’ingegno umano può tutto.
Il secondo approccio che viene usato verso le cose antiche è quello che ho trovato in alcuni luoghi come la Cina: una manata di pittura e via. A chi è stato nella Città Proibita gli si sarà stretto il cuore tra quelle mura vuote di un rosso vivace, tutte con gli stessi fregi verde e blu brillanti e quasi nulla all'interno. Io l'ho visto, uno dei restauratori, con il rullo in mano e un secchio di pittura rossa. La Cina è una delle civiltà più antiche del mondo e avrebbe così tanto da dare in termini di storia, eppure, quando sotto Mao si spazzavano via i ‘4 vecchi’ (vecchie idee, vecchia cultura, vecchie abitudini, vecchi comportamenti) quasi tutto è stato distrutto e il poco rimasto è andato in rovina con l’incuria fino a quando, ironicamente, il capitalismo ha raggiunto quel Paese super comunista e la macchina dei soldi facili del turismo di massa si è messa in moto passando il rullo sui pochi templi e palazzi rimasti in piedi dopo l’invasata furia maoista.
Il terzo approccio, quello per alcuni versi più affascinante – se si ha un insano gusto per ciò che sarebbe potuto essere – è l'abbandono. Semplice, diretto: “non ci servi più. Non ti distruggiamo in nome di ideali nuovi e fanatici, non ti veneriamo in quanto nostro passato. No. Sei un vecchietto inutile rannicchiato attorno al camino. Ti lasciamo lì indisturbato. Chi vorrebbe vederti? Eppure ogni tanto qualche parente lontano viene a salutarti.” L'Est Europa, i Balcani, il Caucaso non hanno avuto il tempo di riportare in auge le proprie bellezze artificiali e, se si guarda alla loro storia recente, forse hanno perso la predisposizione a farlo: in fondo, dopo 70 anni di influenza sovietica ci si è disabituati a quel gusto per la storia che altri paesi hanno in modo spiccato. O forse dico solo sciocchezze.
Fatto sta che per arrivare ai sanatori di Tskaltubo non ci sono indicazioni, non ci sono servizi turistici, non c'è proprio un bel nulla neanche per quanto riguarda la sicurezza. Non credo che Tskaltubo sia neppure menzionata nelle guide turistiche. C'è un bagno termale tutt'oggi, ma chissà se è frequentato come in passato. A 9 Km da Kutaisi dove sorge un’oscena fontana dedicata a Giasone e a degli Argonauti squadrati di dubbissimo gusto e a 240 km da Tbilisi, durante l'era Sovietica Tskaltubo era uno dei principali centri di benessere della Georgia. Oggi, arrivarci senza un mezzo privato è complicatissimo e non mi ricordo neanche come si fa: comunque il mio russo stentato ci ha permesso di chiedere in giro e di prendere svariati bus che alla fine ci hanno portate a destinazione tra gli scossoni. Perché non prendere un taxi? Non so, forse perché fa più avventura spostarsi con le marshrutke, i minivan sovietici con la temperatura di una fornace che viaggiano con la porta aperta in barba alla sicurezza. Dopo un po' di travagli, attese e incomprensioni linguistiche siamo arrivate nella terra dell'abbandono. A Tskaltubo ci sono un lago con l’unico ristorante del posto, la natura e l'acqua termale, un mix perfetto per le vacanze sovietiche. E poi loro, grandiosi e decadenti: quei complessi enormi dalle scalinate a chiocciola, la carta da parati, i giardini con le fontane, le camere, i refettori. Su internet, le foto degli anni Cinquanta mostrano bene le enormità dei centri termali oggi non solo in disuso, ma totalmente abbandonati. Cosa ci si va a fare a Tskaltubo? Nulla, in fondo, se non ammirare lo splendore rosicchiato da rampicanti, radici e dal tempo. Qui e lì le porte sono sbarrate vanamente da lamiere che sbattono al vento spaventandoci.
Fantasmi.
All'ingresso di uno degli hotel se ne sta un uomo in attesa di farci da guida – senza nessun permesso, ça va sans dir. E chi si ricorda il nome di quello specifico albergo? Non una targa, non un’insegna: solo pareti che si sgretolano, soffitti che vengono giù, vetri rotti, sedie abbandonate su balconi senza parapetto, edere che mangiano gli edifici. Ci inoltriamo: è pericoloso ma vince il fascino delle cose abbandonate, della carta da parati dimenticata, dei frammenti di muro, dei vetri e dei ricordi.
Poi una branda, un tavolaccio, dei quaderni, dei vestiti moderni: ci abita qualcuno. Resti di scatolette di tonno e lattine di birra: queste cose non risalgono ai tempi dell'Unione Sovietica. Ci guardiamo meglio intorno: alcune aree dei sanatori hanno tendine alle finestre, dei ripari, un qualcosa che ricorda la vita. Nei sanatori abbandonati ci vivono le persone abbandonate: i rifugiati dell’Abkhazia, un pezzetto di terra georgiano sul Mar Nero invaso dalla Russia, anche quello. Prima della guerra in Ucraina servivano dei permessi speciali per recarsi in Abkhazia, oggi chissà: è territorio russo.
Chi è fuggito dagli invasori è riparato lì a Tskaltubo. C'è tanto spazio nei sanatori abbandonati: ci vivono famiglie, bambini, gente senza elettricità, senza acqua corrente, senza patria, senza speranza. Oggi la Georgia è vicina all'Ucraina perché, come ci ricordano i numerosi manifesti appesi in ogni angolo del paese, la Russia ha preso il 20% del suo territorio, l’Ossezia e l’Abkhazia, e si è lasciata dietro gente dimenticata tra i sanatori abbandonati.
Un sanatorio solitario abitato da un unico senzatetto in una delle stanze pericolanti l’ho trovato anche sul monte Dajit alle porte di Tirana, poco più su dell'arrivo della cabinovia. Se ne sta lì, immenso, vuoto e giallo. Il vecchietto dimenticato che potrebbe raccontare tante storie sul tempo della dittatura, ma ha dimenticato come si fa. È quasi integro, al contrario dei resti dei ricordi sul monte Trebević a Sarajevo, come l’osservatorio astronomico dei tempi della Jugoslavia squarciato dai bombardamenti: chissà che belle storie sono accadute lì, tra le foreste, a guardare le stelle, prima che venissero oscurate dai morti. In trent'anni nessuno ha deciso di restaurarlo, solo un pannello ci ricorda ciò che era e che è accaduto. Potrebbe crollare da un momento all'altro, sgretolarsi in ricordi che non appartengono più nessuno, triste fratello della pista da bob che si snoda tra i boschi a pochi passi da lì, ricordo delle Olimpiadi dell'84. Forse questa pista da slittino in cemento abbandonata fuori Sarajevo è stata un tempo trincea di soldati e cecchini. Non lo so, nessuno ce lo dice, ma ci sono fori di proiettili e tanta desolazione. È abbandonata ma non dimentica. Non l'ha dimenticata neanche chi l'ha abbellita con dei murales: visi di donna, scritte, ghirigori fatti con lo spray, un nuovo tipo di restauro a basso costo che dice: “noi non ti abbandoniamo, cara pista. Non sei come i sanatori o come l'osservatorio. Noi ti commemoriamo qui nei boschi, immersa nei colori di un nuovo millennio.”
Nel mondo del turismo di massa sanatori e piste da slittino abbandonati sarebbero potuti diventare attrazioni brillanti, hotel, centri commerciali e parco giochi. Invece no, loro se ne stanno lì desolati ad accogliere persone desolate ad eterna memoria di ciò che fu, ma soprattutto di quello che ne conseguì.
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