“Io, per quel tunnel, ci sono passata” ci comunica Vesna, la nostra ospite a Sarajevo. Alziamo la testa dal depliant per turisti: siamo chine sul tavolo della disordinata cucina, due tazze di caffè bosniaco che ho provato a preparare seguendo una ricetta online ci fanno compagnia mentre cerchiamo di definire le tappe della giornata. “L'ho usato per uscire dalla città assediata e andare a salutare mia mamma e le mie sorelle in Croazia prima che si imbarcassero per l’America, poi l’ho riattraversato per tornare.” Ora il Tunnel della Speranza è solo un’attrazione turistica tra le tante che ricordano la guerra degli anni ’90 nei Balcani.
“E perché sei tornata?” La città fu assediata per quasi quattro anni dalle milizie serbo–bosniache, il più lungo assedio di una capitale nella storia europea, centomila morti tra civili e soldati, vecchi e bambini, uomini e donne. Alessia sta zitta, forse è imbarazzata: di sicuro non è un argomento di cui chiacchierare a colazione. Continuo a fare domande. “Ma non era pericoloso?”, domanda stupida.
“Certo, certo che lo era. Lavoravo in banca e le banche non si fermano durante una guerra: c’è chi manda soldi e aiuti dall'estero. Ogni mattina uscivo da questa casa…”
“Proprio questa?”
“Sì, abitavamo già qui. Uscivo e iniziavo a correre fino al prossimo nascondiglio sperando che non ci fossero cecchini. Mi guardavo intorno e poi riprendevo a correre per nascondermi ancora. E avanti così, fino a che non arrivavo in banca. Non sapevamo mai se saremmo rincasati la sera” racconta con la voce rotta e gli occhi lucidi. Infatti, molti venivano trapassati dai proiettili o uccisi da una bomba. A questo proposito, Vesna ci dice che non era come in Ucraina, con i droni e i missili.
A quel punto mi fermo. L’ospite si asciuga gli occhi e, come se nulla fosse, ci dà consigli su altre attrazioni. “Andate al parco Veliki o fate una passeggiata sotto i tigli di via Vilsonovo – la via Wilson, dove c’è anche il caffè Tito con i carri armati.” Decorazioni ordinarie, nell’Europa Orientale. Il tunnel non saremmo andate a vederlo. Ci era bastata la mostra di foto di cadaveri bendati, corpi bruciati e salme sanguinanti ritratte nelle strade della città tenuta in un angolo del bel municipio di Sarajevo. C’è una mostra di arte contemporanea e poi, all’improvviso, in due sale buie, ti ritrovi davanti agli occhi cose che non volevi vedere.
Un tempo quell’edificio in stile moresco ospitava la Biblioteca Nazionale, andata a fuoco durante la guerra con una perdita di centinaia di migliaia di volumi, alcuni anche unici, e della bibliotecaria che cercava di salvarla. E ora questa storia così improvvisa e agghiacciante, arrivataci come il proiettile di un cecchino dopo tutte le congetture fatte osservando foto abbastanza recenti di Vesna e di quello che doveva essere il marito, ritratti con il figlio adolescente in pose felici. “Guarda come stanno bene, Sicuramente non erano a Sarajevo durante l’assedio” ci siamo dette io e Alessia. O peggio ancora: “forse sono serbi.” I serbi – visti da questo lato – erano i cattivi.
Invece lei aveva attraversato quel tunnel scavato fin fuori la città, fin fuori l'assedio, dal quale passavano persone e aiuti. Aveva assaggiato la pace e la libertà e le aveva gettate via per amore. Questo pensiero mi ha perseguitata per giorni, settimane. Dire che l'amore è il motore del mondo sembra retorica, ma quando qualcuno rifiuta la pace, la sicurezza – eventualmente la vita – per amore, allora forse questa forza non serve solo a creare belle frasi da mettere nei cioccolatini. I cecchini, le corse ogni mattina e ogni sera, la morte incombente, l’incertezza: per lui.
A Sarajevo le cicatrici della guerra di trent'anni fa non sono solo negli occhi di Vesna. Le si possono vedere ancora nei fori dei proiettili sulla maggioranza delle facciate: sono stati la prima cosa che abbiamo visto appena scese dal bus in una mattina di agosto. Qui è lì se ne stanno malinconiche le rovine dei palazzi bombardati, tra un caffè alla moda e un museo sulle tragedie della città. I Balcani solitamente sprizzano un’insana follia fatta di odore di ćevapi che si spande nelle strade, di gente che mangia, corre in vecchie carrette con la musica a palla, di strana fascinazione per l'Italia, di una voglia di parlare, raccontare, chiedere. In Bosnia ed Erzegovina no, qua un velo di malinconia copre non solo i palazzi, ma anche gli abitanti che passeggiano lungo il fiume, siedono tra gli stećci – lapidi tombali – e vivono una vita normale. O almeno così sembra.
Nessuno sorride, nessuno viene a farci domande o ad elogiare l’Italia – la landa mitologica oltre l’Adriatico. Ognuno se ne sta al proprio posto, in silenzio, pensieroso. È alienante dopo aver attraversato i Balcani e averne saggiato la pienezza di vita disordinata, di attimi sfasciati e disorganizzati ma sempre conviviali.
Qui ci sbattono in faccia le nostre responsabilità. Oltre i mesti sorrisi e i bei musei patinati si nascondono storie come quelle di Vesna – o ancora peggiori. Torno a chiedermi, può essere l'amore tanto forte da sconfiggere la paura e la morte? Tutti i film e i romanzi ci dicono di sì, ma nella vita reale le coppie, le amicizie, le famiglie si sfasciano per molto meno.
Sarei stata capace di fare lo stesso? Sapere di essere solo il bersaglio di un cecchino, un non-umano, di poter non tornare a casa viva quella notte?
Mi pento di non averle chiesto di più, ma ha vinto l'imbarazzo. Avrei dovuto chiederle: “Vesna, che cos'è l'amore per te?” e forse lei mi avrebbe svelato il più grande mistero dell'umanità. L'amore che nasce per qualcuno che poco prima ci era sconosciuto e poi gli doniamo così tanto da accettare che un proiettile possa colpirci al cuore ogni mattina e ogni sera. Trascorriamo tutta la vita a innamorarci e a disinnamorarci, a leggere storie d'amore, a guardarle, a sentirne le canzoni, eppure l'amore rimane qualcosa di inspiegabile. Erik Fromm dice che l'amore è un'arte e come ogni arte va praticato giorno dopo giorno, con costanza e dedizione.
Quando si va a Sarajevo se ne esce con un bagaglio storico e un grande senso di colpa. Dopo tutto, è la città dove è iniziato e finito il 1900, la città dove un battito di farfalla (neanche così leggero) in quel 28 giugno del 1914 ha trascinato con sé milioni di morti, stermini, genocidi, bombe atomiche, campi di concentramento, una profonda spaccatura tra due Europe antagoniste, fori di proiettili e una guerra che continua tutt'ora. Oltre a quello che ci raccontano i manuali storici, sono stata così fortunata da aver raccolto la storia, di guerra e d’amore, di una persona normalissima, una di quelle di cui ci dimentichiamo sempre.
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