Qual è la prima cosa che viene in mente quando si menziona l’Europa? Per fare un esempio, alcuni cinesi la vedono come una sorta di Paese unico, distaccato dagli USA e dal Regno Unito, un po’ come tanti di noi vedono l’Africa. Quando vivevo in Cina, parecchi non si capacitavano del perché in Italia l’inglese non fosse la madrelingua e perché io – fingevo, per praticare il cinese – non lo parlassi. L’Italia è in Europa, no? Tutti parlano l’inglese! Quando in Marocco si pensa al nostro continente, davanti agli occhi compaiono la Francia, l’Inghilterra, la Scandinavia, l’Italia e la Spagna, posti ricchi, dove nulla va storto, tutti lavorano e guadagnano così tanti soldi che, in fondo, si meritano di sottrargliene un po’ quando sono in vacanza. Forse anche per molti di noi italiani l’Europa è l’eleganza di Parigi, l’efficienza della Germania, il freddo della Scandinavia, le feste della Spagna. Non sono in tanti coloro che alla parola “Europa” associano anche campi di girasole estesi per chilometri, cicogne sui camini delle masserie, treni come ferrivecchi che avanzano con calma tra le colture, piatti di čevapčici e cipolle, kvas, musiche zigane, una buona dose di brutalismo d’ispirazione sovietica, dolore, sangue.
L’Europa dell’Est: ogni pochi chilometri la lingua cambia, ogni poche centinaia ci si ritrova in un paese totalmente diverso e nel frattempo si è attraversata la storia dei genocidi e delle guerre che l’hanno devastata. Nei Balcani, l’Europa a noi familiare sfuma via: l’eleganza asburgica degli sloveni diventa la voglia di Occidente dei croati, sfociando nella fierezza nazionalista dei serbi, nella malinconia dei bosniaci, nell’isolamento albanese e nel no-sense macedone. A est ci si avvicina sempre più agli slavi d’Oriente, di cui conosciamo i muratori e le badanti, ignorando i boschi di betulle, i placidi fiumi, le steppe sconfinate, le foreste vergini e i campi di girasole.
A sud, poi, subentra l’elemento più estraneo all’Europa immaginaria: l’Islam. Le donne velate del Kosovo, i bazar di Skopje , il vago ricordo di un minareto in Albania. A Sofia la moschea di Banya Bashi è a quattro passi dalla chiesa di Santa Nedelya. Anche se il muezzin è silenzioso, ogni volta che ci passo davanti quel minareto in mattoni mi ricorda che sono arrivata alla frontiera. Non della Bulgaria, ma dell’Europa. Oltre c’è il Medioriente, le cupole di Istanbul, l’odore del Bosforo, la sveglia alle 5 di mattina e gli altopiani desertici. Sofia non è l’unica città dove si uniscono Oriente e Occidente. Anzi, è forse la meno esplicativa di tutte visto che l’elemento slavo è predominante. Eppure lì, nei Balcani, si schiude il cuore della nostra civiltà.
Skopje, città assurda, sogno e incubo, coacervo di popoli e tradizioni dalle origini più disparate. C’è chi dice che sia orribile, in pochi la trovano bellissima. Tuttavia non ho mai ricevuto troppi pareri sulla capitale della Macedonia del Nord perché, in fondo, quando mai ci capita di sentir dire “quest’estate vado in vacanza a Skopje?” Noi, invece, ci tenevamo a visitare una delle città più importanti della parte meridionale dei Balcani, arazzo di diverse culture: slavi, albanesi, turchi, rom, cristiani ortodossi, musulmani, eccetera.
La Macedonia del Nord l’abbiamo raggiunta via terra dalla Bulgaria, precisamente dalla cittadina di Blagoevgrad, non lontana dal bellissimo monastero di Rila. Era ancora il secondo anno della pandemia di covid-19, quindi tutti i collegamenti tra l’Unione Europea e i paesi extra comunitari erano interrotti. Un taxi bulgaro ci avrebbe portate sino al checkpoint di Delchevo e lì avremmo improvvisato. La dogana era talmente desolata che in 15 minuti è passata una sola macchina e la polizia aveva avuto tutto il tempo per chiederci cosa ci facessero due donne con lo zaino in spalla a piedi tra la Bulgaria e la Macedonia del Nord.
Di frontiere terrestre ne ho attraversate a bizzeffe e persino quella di Aktas Sinir Kapisi – la più piccola tra la Georgia e la Turchia – era più movimentata. Invece qui, tra le dolci colline che si diramano dalla spina dorsale dei Balcani, non c'era nulla oltre a dei capanni sulla destra e a un gruppetto di donne dalla pelle scura che chiacchieravano attorno a un tavolino di plastica. Come arrivare a Skopje, a centocinquanta chilometri da qui?
La parola taxi mette subito in fermento il gruppo di comari e in capo a pochi minuti compare una macchina che ci porta a Shtip, previo pagamento anticipato. Poco dopo la partenza, il “tassista” accosta per rimuovere il segnale del taxi dal tettuccio “ed evitare problemi con la polizia”, prima di riprendere la sua corsa sfrenata. Dopo varie curve, ponti, tornanti, il tutto nella foresta, ci lascia nella desolante stazione dei bus di Shtip, dove prendiamo un autobus per la non meno desolante stazione dei bus di Skopje.
L’autostazione non è un bel biglietto da visita per chi arriva per la prima volta nella capitale. Straccioni, zingari e tassisti insistenti, caos generale, sporco, disordine. Adoro la trascuratezza dei Balcani, il loro accontentarsi di quello che c’è, la capacità di renderlo ancora più brutto senza mai perdere l’infinito orgoglio che li caratterizza. Nel disagio generale spiccano dei bus londinesi rossi a due piani che ci portano lungo tristi viali alberati in pieno stile sovietico, ma con quel tocco di insensatezza balcanica. L’autista all’improvviso accosta, scende, si avvicina a un baracchino dove prende il suo pollo arrosto da asporto e continua il viaggio.
L’appartamento preso in affitto ci sorprende, lindo e ordinato com’è, con un bel giardino sul retro. È un po’ fuori dal centro così, dopo aver lasciato gli zaini, ci incamminiamo lungo il vialone principale, boulevard Partizanski Odredi, in una pesante cappa gialla che sembra prodotta da incendi. Le montagne della Macedonia sono in fiamme, scopriremo più tardi. La situazione è così grave che il Ministero vi ha vietato qualsiasi escursione per almeno due settimane. In città non si respira, è luglio, fa caldo, siamo in un forno polveroso disteso tra due file di colline e attraversato dal triste fiume Vardar sul quale è stato costruito un ponte con due leoni molto kitsch aldilà della fortezza. Qui si entra nel centro della città.
Il Vardar divide in due le zone storicamente slave e ottomane. Attorno a Piazza Macedonia, con Alessandro Magno su un cavallo rampante edificato a Vicenza, tra il 2012 e il 2014 sono stati costruiti imponenti edifici neoclassici per dare un volto nuovo alla capitale. L’effetto, però, non è quello dei centri storici delle città Mitteleuropee, ma un grande senso di vuoto, di disagio. Non è il loro posto. C’è il teatro con le sue malinconiche statue stagliate contro il cielo giallo, il museo archeologico, l’opera, altri palazzi ancora in costruzione. All’interno del Museo delle Battaglie per l’Indipendenza troviamo la mostra più assurda che abbiamo mai visto: un museo delle cere dall’aspetto fin troppo verosimile e quadri raffiguranti cruente scene della storia del paese dal XIX secolo a oggi. Le statue raffigurano i politici e i ribelli durante l’occupazione dell’Impero Ottomano e i “cattivi” turchi. Nella sala principale, costellata di foto di trucidazioni e massacri, è stato allestito un patibolo e su di esso un ribelle a grandezza naturale impiccato. Ai piedi, le statue di una donna in ginocchio e dei figli piangenti, dei corvi e un cane impagliati. Il museo è immenso, vuoto, in penombra e dagli altoparlanti provengono grida, colpi di armi da fuoco e musiche angosciose. A ogni passo ci sentiamo seguite dallo sguardo di quelle cere che pare possano prendere vita da un momento all’altro. Lo scopo del folle ideatore del museo delle Struggles for Indipendence è stato raggiunto.
All’esterno di quel luogo di orrore in cera, da un lato del Ponte di Pietra e di quello delle Arti risplendono gli hotel di lusso, i palazzi di vetro, i locali chic; dall’altro, oltre Filippo con il pugno levato a salutare il figlio, c’è un luogo magico: la Čharšija antica, ovvero il vecchio bazar ottomano, ora zeppo di mussulmani, rom, albanesi, turisti, gioiellerie, ristoranti di kebab, locali dove bere il caffè turco preparato nella scodella di rame o il chai in bicchieri di vetro mentre si fuma il narghilè. Dai minareti la voce del muezzin richiama i fedeli alla preghiera. Questi ultimi vi accorrono in massa cinque volte al giorno con il tappeto arrotolato sotto il braccio, molto più devoti di tanta gente nei paesi islamici. Lasciano i loro business aperti con i clienti ancora dentro, Allah supervisionerà.
La Čharšija è composta di vicoletti e di edifici ottomani dove ci si può sedere sui colorati cuscini e osservare l’umanità. È qui l’ombelico del mondo, o forse solo dell’Europa, un crogiolo di mille culture. Da zona turca divenne albanese e fino a una decina d’anni fa era l’area più povera e malfamata di Skopje, prima di venire bonificata per renderla vivibile ed attirare i turisti.
Appena si inizia a intravvedere la sua vera anima, Skopje risalta di bellezza, il senso di malinconia sparisce e si scorge la voglia di emancipazione mista al legame con la storia di questa città. I giorni scorrono sereni, caldi e languidi, lenti come il rito del caffè turco e del narghilè. Qui si percepisce la storia dell’occupazione turca dei Balcani, qui si incontrano Oriente e Occidente, loro e noi, divisi da un fiume e da ponti costellati di statue. Di queste ultime ce ne sono circa mille nel centro storico vecchio di soli 10 anni. Si voleva renderla europea, redimerla dal suo retrogusto turco misto a quello sovietico, ma il risultato è finto, forzato, al limite del ridicolo. La Macedonia non è occidentale e tale dovrebbe rimanere per evitare di diventarne solo una patetica brutta copia.
La bandiera arancio con i raggi del sole sventola tra i vuoti palazzoni neoclassici e le statue del condottiero e di suo padre. Ufficialmente la scultura non è intitolata ad Alessandro Magno per evitare le proteste dei greci che reclamano le sue origini, ma in realtà è l’orgoglio della Macedonia, o meglio dire della Macedonia del Nord per non infastidire i greci che affermano che di Macedonia ce n’è una sola ed è la loro.
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