La via della seta a cavallo: storie dalla Kirghisia sovietica
Lettere dall'Oriente - Karakol & Altyn-Arashan, Kirghizistan
“Io ho due mogli: lei è la seconda, la prima è la mia macchina” ci confessa Dima in una battuta maschilista. La seconda moglie chiude le mani a pugno in segno di minaccia, ma ride. Io e Alessia siamo sempre più imbarazzate: è l’ennesimo scherzo del genere da parte del nostro ospite.
Circa una settimana prima, Dima era piombato all’improvviso durante la nostra trattiva con i tassisti di Kochkor per farci portare al lago Song-Kul, ci aveva pagato parte del passaggio e offerto due fette di pizza insipida. Poi lo avevamo perso di vista, ricordandolo di quando in quando come un piccolo eroe.
Ci è ricapitato davanti, in modo del tutto imprevisto all’altro capo del lago Issyk-Kul. Kochkor ne è a ovest, non lontano dalla capitale Bishkek, e Karakol è sulla riva opposta, a sud-est. Oltre, ci sono solo picchi di oltre settemila metri e la Cina. La prossimità al Turkestan Orientale, ufficialmente riconosciuto come la provincia cinese dello Xinjiang e popolato da uiguri musulmani, ha influenzato la cultura di Karakol, arricchita anche dall’eredità dell’Unione Sovietica. Grazie a queste influenze, unite alla vicinanza a luoghi di straordinaria bellezza naturale, Karakol, quarta città del Kirghizistan, si presenta come una meta imperdibile per chi viaggia in questa regione dell’Asia centrale.
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Karakol, l’ultima città kirghisa prima della Cina
Fu costruita dai sovietici seguendo un impianto a scacchiera. I viali alberati, le antiche case dagli infissi colorati e i giardini fioriti, che richiamano scenari simili dall'Ucraina fino a queste terre, incorniciano strade dissestate e vecchie automobili inquinanti. Ci sono vari lasciti slavi qui, tra cui l’elegante chiesa ortodossa in legno, con le sue cupole e le croci, tutta circondata da fiori e alberi sullo sfondo delle vette innevate del Tianshan.
Abbiamo tentato di visitarla nel momento meno opportuno, proprio mentre uscivano volti russi dalla pelle chiara, così esotici in questo mondo di occhi a mandorla e guance bruciate dal sole. Le donne, anziane e giovani, portavano fazzoletti colorati avvolti sulla testa e gonne al ginocchio. Quelli che uscivano dalla funzione erano gli unici russi che abbiamo incontrato a Karakol, a differenza di Bishkek, dove visi chiari e scuri si alternano con regolarità. Tuttavia, questo non significa che Karakol sia più musulmana della capitale; anzi, le donne erano meno coperte e non si sentiva il richiamo alla preghiera dell’Imam. La moschea della città, invece, racconta una storia molto interessante su come il Kirghizistan, pressoché sconosciuto dalle nostre parti, sia stato, invece, un importante crocevia nel corso dei secoli. Era su questi monti che passavano alcune delle vie della seta.
I Dungani, il popolo uiguro dell’Unione Sovietica
Dima è un omone più grosso della media kirghisa, che è minuta come i tibetani. Ha la pelle scura, gli occhi tondi e la pancia prominente. È uiguro, il popolo turcico che vive nei bacini Dzungarian (Zungaria) e del Tarim, attorno al deserto del Taklamakan. Qui ci sono anche i punti più bassi e più alti del territorio della Repubblica Popolare Cinese: 155 metri sotto il livello del mare e 8611 d’altitudine con il K2. Gli uiguri furono conquistati dai cinesi, ma mai del tutto assimilati; è per questo che tutt’oggi compiono attacchi terroristici contro il governo e subiscono una repressione molto dura, che però ha il silenzio dell’occidente: campi di rieducazione, trasferimenti coatti, controlli invadenti alla privacy anche nei più semplici gesti quotidiani e veti su alcune pratiche religiose.
I Dungani, appartenenti agli uiguri, si rifugiarono in Kirghizistan, attraversando i passi tra le vette che superano i 7000 metri. Fuggirono dalle repressioni cinesi degli anni 1862-1877, in seguito alla ribellione dei Dungan. Mantengono molti elementi delle tradizioni cinesi e musulmane, inclusi costumi religiosi e abitudini alimentari. Per questo, vagabondando per le vie di Karakol, ci siamo imbattute in una costruzione particolare: la moschea dei Dungan, tale e quale a un tempio cinese. È tutta in legno, costruita senza neanche un chiodo all’inizo del ventesimo secolo. Vi si accede tramite un tranquillo giardino fiorito. La prima cosa che salta agli occhi è il basso minareto azzurro, come gran parte della struttura stessa. Il tetto dagli angoli all’insù ha decorazioni verdi e oro e anche le tegole sono verdi. È circondata da un colonnato, le finestre sono celesti e sulle pareti spiccano dipinti cosmici con scritte in arabo, russo, kirghiso e cinese. Vi sono ancora alcuni dungani in Asia Centrale, ma gran parte di essi provò a ritornare in Cina durante le repressioni dell’Unione Sovietica: molti di loro morirono nella lunga marcia attraverso gli inospitali Monti del Cielo. L’eredità cinese a Karakol si sente anche nei sapori, soprattutto nell’ashlan-fu, un piatto di noodles freddi in un brodo di coriandolo, peperoncino, verdure fresche e altre spezie che ricordano il Regno del Centro.
Dima discende da loro, ci racconta davanti a un piatto di patate bollite e scondite e del salmone al forno, cotti dalla moglie circassa. Una delle cose che più mi affascina dell’ex URSS è il crogiolo di popoli diversi così intersecati non solo tra quelli che occupavano le repubbliche sovietiche, ma anche con i Paesi circostanti.
“I miei antenati erano uiguri, ma io sono nato in Kirghizistan durante l’Unione Sovietica. Lei viene dal Cabardino-Balcaria, nel Caucaso del Nord. I miei figli, nati dalla prima moglie – non la macchina – vivono in Israele, mia sorella è a Milano, dopo le telefoniamo. Parla benissimo in italiano.”
Karakol è davvero una città piacevole, tranquilla e trasandata quel pizzico che la rende nostalgica. C’è la via dei russi, con le case di blu, rosso e bianco ed enormi aquile che campeggiano sui muri; un’altra ha la porta d’ingresso circondata dal muso di un rettile in cemento. C’è anche un piccolo Lenin, uno dei più a Est, che indica senza speranza la “retta via” in un parco popolato da bambini e coppiette.
La vita notturna non è il massimo e l’unico pub che sembrava interessante era chiuso. “Il proprietario è stato rapito dagli alieni, ci vediamo presto” era scritto sulla porta, accanto a una bandierina ucraina dipinta sul muro. Ci siamo dovute spostare alla pizzeria russa Imperiya Pitstsy, l’Impero della pizza, dove abbiamo mangiato e bevuto con degli escursionisti italiani. Erano in quelle zone per fare trekking, zaino in spalla e camminate di più giorni, mentre io e Alessia abbiamo optato per qualcosa di più insolito: cavalcare sulle Montagne Celesti.
Cavalcare sulle Montagne Celesti
Dall’Italia prima di partire avevamo trovato su internet un’offerta per un trekking di due giorni con una notte in yurta a 270 euro a testa. Immaginavamo, però, che sul posto avremmo trovato quacosa di molto più economico e infatti, camminando per le vie di Karakol, si scorgono locandine con numeri di telefono di maneggi che organizzano tali escursioni. Dopo averne contattate un paio, abbiamo optato per il sentiero che dal villaggio di Ak-Suu sale ad Altyn-Arashan per 8000 som, circa 87 euro, al giorno per due persone. Le spese erano divise in 2500 som per ogni cavallo e 3000 per la guida.
Raggiungere Ak-Suu non è per nulla complesso: si può andare in taxi oppure prendere la marshrutka numero 350 dal bazaar di Karakol per 35 som (circa 38 centesimi di euro) che ferma al sanatorio, appunto, “Ak-Suu”. Lì all’angolo ci aspettavano tre cavalli tenuti alle briglie da un bell’adolescente dai tratti mongoli, la pelle chiara e gli occhi nocciola chiaro sotto un cappello da cowboy.
Non ero mai stata veramente a cavallo, se si escludono due escursioni di un paio d’ore una volta in Tibet e una in Ucraina. Ovviamente non c’erano né una preparazione né un’assicurazione, solo il silenzioso giovanotto che in quattro parole ci ha spiegato come guidare i cavalli.
Tuttavia, devo ammettere che è stata una delle giornate più belle della mia vita e non mi sentivo così felice da tempo. Inoltre, il giorno precedente ero nervosa e continuavo a immaginare scenari riguardanti la mia morte per una caduta, però non mi sono lasciata scoraggiare e ho così scoperto che andare a cavallo nei boschi, nel silenzio totale, mi fa sentire a mio agio. Ero sicura e stabile sul mio castrato, immersa nel profumo dei boschi di conifere che ammantano le alture sulle quali ci stavamo inerpicando con queste creature sconosciute e la guida che ogni tanto incitava gli animali. Lui non parlava e poco dopo anche io e la mia amica non avevamo più niente da dirci. Il frastuono del vicino torrente che scorreva con impeto dai ghiacciai visibili all’orizzonte accompagnava lo scalpiccio degli zoccoli e le nostre chiacchiere si sono ben presto perse nei suoni della foresta. Le nostre parole si limitavano ai comandi per i cavalli, come “chu!” vai e “drrr!” ferma.
Per otto ore abbiamo attraversato mandrie di mucche al pascolo e coppie di escursionisti, torrenti e boschi. L’ultimo tratto prima di Altyn-Arashan è molto ripido e sia la salita che la discesa sono state una sfida per noi cavallerizze alle prime armi. Gli zoccoli dei cavalli scivolavano sulle pietre lisce dei sentieri più ripidi. Siamo riuscite a rimanere in equilibrio nonostante la fatica e i crampi all’inguine, ai glutei e alle ginocchia, dolori che ci hanno accompagnato anche nei giorni seguenti ma che, non per questo, hanno ridotto la bellezza dell’esperienza. Infine, siamo giunti ad Altyn-Arashan, tappa obbligatoria per chi continua il percorso fino al lago alpino dalle acqua turchesi, l’Ala-Kul, e al ghiacciaio.
Sono contenta di aver superato la paura e di aver fatto questa escursione. Ho scoperto la potenza meditativa della cavalcata, accentuata dall’immersione completa nella natura. Credo di essere stata in uno stato di flow pressoché interrotto per ore, nel quale esistevano solo il qui e ora. Ogni tanto si affacciava qualche pensiero, di quelli dolorosi, ma poi si alleggerivano da soli e sfumavano via, lasciandomi un senso di pace.
Nonostante il dolore a qualsiasi muscolo del corpo, ho deciso che rifarò l’esperimento, ma questa volta più a lungo: una settimana di cavallo e campeggio, senza internet, con poche parole e pochi pensieri che si nebulizzano, un’avventura di sette giorni nella valle del Pankisi in Georgia o in Mongolia.
Tornati a valle, abbiamo dato i soldi alla guida, senza né una ricevuta né altro. In Asia Centale va bene così. A gesti ci ha fatto capire che voleva il numero di telefono: “foto” ha detto con fare perentorio ad Alessia prima di andarsene senza aggiungere altro. Noi, dal nostro canto, dovevamo tornare a Karakol per l’appuntamento con Dima. Da dove ci ha lasciato la guida, abbiamo trovato un passaggio fino al centro di Ak-Suu e lì la marshrutka 377 ci ha riportate a Karakol per 25 som (0,27 euro).
Dima, come dicevo, lo avevamo perso di vista una settimana prima quando ci aveva lasciate nelle mani del guidatore della Volgswagen demodé per arrivare al Song-Kul. In qualche modo, però, mentre ci tenevamo in bilico sulle selle durante la discesa da Altyn-Arashan, una jeep è passata accanto alle nostre cavalcature, dalla quale si è sporto un faccione scuro: “Where are you from?”
“Italy!”
“Ah! Italia! Ehi, ma noi ci conosciamo!”
Era proprio Dima. Incredulo tanto quanto noi, è sceso dalla jeep, ci ha fatto le feste, ha distribuito delle pesche – sembra che il suo scopo nella vita sia dar da mangiare – e ci ha invitate quella sera stessa all’hotel Akmanal, per assistere a un concerto di musica tradizionale dove alloggiavano i turisti israeliani che erano in macchina con lui.
Abbiamo infatti scoperto che il lavoro di Dima, kirghiso di origini uigure e dal nome russo – Dimitrij – è di portare in giro i turisti israealiani. Ne parla la lingua e ha la famiglia lì. Il concertino era simpatico: i musicisti in abiti tradizionali spiegavano in kirghiso le origini degli strumenti e delle canzoni, che Dima traduceva in israeliano prima e in un italiano sgangheratissimo misto a parole straniere poi. Si è rivelato essere un personaggio fastidioso: continuava a filmarci tutti e a farei ciao ciao con la manona, distraendoci dal concerto. Per di più stavamo morendo di fame: erano le dieci di sera e in tutto il giorno avevamo mangiato solo un panino tra i boschi. Senza di lui, però, non avremmo mai ascoltato il suono dei tamburi kirghisi, dei flauti, dei komuz e degli scacciapensieri delle montagne che un tempo venivano usati per mandarsi messaggi tra le vallate grazie all’eco.
Dopo il concerto, il nostro ospite ci ha offerto una cena a base di patate bollite, insalata, un po’ di salmone e manti ripieni di carne, mentre lui si comportava in maniera imbrazzante cercando di far ingelosire la moglie con le “belle italiane” e lei fingeva di prenderlo a pugni. Gli israeliani, per loro fortuna, alloggiavano nell’hotel Akmanal e si sono dileguati con facilità, così da evitarsi le foto di quando “mia moglie era bella e giovane, non come adesso”. Non che lui fosse un figurino, comunque. Per intrattenerci o sul serio, improvvisavano scenette di gelosia spiccia, lei con la sua violenza caucasica e lui con il suo fare da macho, mentre io e Alessia, sempre più a disagio, mandavamo giù le patate scondite.
“Io vado via con le belle ragazze italiane” ha annunciato dopo un po’ avvolgendoci con un braccio ciascuna per ricondurci in hotel, mentre sua moglie ci seguiva con lo sguardo glaciale da circassa.
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