Quando i russi portarono la ferrovia a Bukhara, la stazione venne costruita a 15 km dalla città, a Kagan, perché lo strumento diabolico non avrebbe dovuto toccare la “Santa”, come Bukhara veniva chiamata. Oltre a pellegrini e carovanieri, per le sue vie hanno passeggiato grandi esploratori come Marco Polo, Avicenna, Ibn Battuta. Era il polo religioso più importante dell’Asia Centrale, nonché tappa obbligatoria per chi attraversava la via della seta. I viaggiatori del passato descrivevano la sua bellezza e i suoi antri del sapere; i viaggiatori del secolo scorso l’hanno descritta come un luogo povero con case e vie di fango, strade impolverate e palazzi in rovina.
Ciao, sono Alessandra! Lo so che sarebbe meglio postare foto fighe, ma questa sono io in un treno uzbeko a lunga percorrenza mentre mangio noodles istantanei. Perdonatemi, ma viaggiare è anche questo.
Vagabondo spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia.
Di recente ho esplorato l’Asia Centrale come donna che viaggia indipendentemente, e nelle mie Lettere ti racconto questa esperienza. Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Nel 2024, io e Alessia troviamo in Bukhara una cittadina tirata a lucido. Non è opulente né brillante come Samarcanda, ma anche qui i mattoni delle moschee e delle madrase sono stati re-impilati negli ultimi decenni. Della famosa oasi polverosa, rumorosa, affollata di mercanti e viaggiatori, non è rimasto nulla, se non mura perfette e stagni circondati da ristoranti chic, fiori finti e fontane.
Tra il XVIII e il XX secolo, l’Asia Centrale era divisa tra potenti khanati, quello di Kokand, quello di Khiva e il khanato di Bukhara, tutti e tre governati da crudeli emiri che massacravano sudditi e prigionieri a piacimento e dove la schiavitù di persiani e russi era legalizzata.
Durante quello che gli storici chiamano “il Grande Gioco”, la Russia e l’Inghilterra si contendevano queste terre e sfidavano il deserto e i banditi per arrivare negli sconosciuti emirati e convincerne i crudeli governanti a passare da una parte o dall’altra. Tra essi si ricordano due ufficiali inglesi: Arthur Conolly e Charles Stoddart, passati alla storia per la loro tragica fine. Il primo giunse a Bukhara nel 1838 e, reo di non essere sceso da cavallo al cospetto del Khan, fu imprigionato e messo nel “buco nero”, una fossa profonda sei metri piena di vermi che mangiavano la carne dei prigionieri vivi. Tre anni dopo, il suo amico Stoddard, che si recò a Bukhara per capire cosa ne fosse stato di Conolly, fu rinchiuso nella stessa buca. Un anno più tardi, nel 1842, l’Emiro di Bukhara condannò a morte i due: li costrinse a scavarsi la fossa davanti all’Ark, il palazzo reale, e lì decapitò subito dopo che i due, abbracciandosi, si dichiararono ancora una volta cristiani. Nel museo allestito dentro la fortezza ci sono ancora oggi dei piccoli ritratti degli sfortunati, ma non si fa menzione delle brutalità subite, come non si menzionano le malefatte dei sovrani in generale (e degli altri personaggi di queste terre, tra cui Tamerlano). Al contrario, si esaltano solo i loro tratti eroici e positivi.

Oggi, la storia uzbeka viene narrata come un glorioso e virtuoso corso di gesta di grandi imperatori e grandi sapienti, nascondendo assassinii, tradimenti e torture.
Nel museo dentro la fortezza di Bukhara non viene nominato neanche l’Orlandi, nostro connazionale, che fu venduto come schiavo nel 1851. Si salvò solo perché costruì l’orologio sulla facciata dell’Ark. Oggi non c’è più ma è ben visibile nelle foto dell’inizio del secolo scorso. Inoltre, assemblò un telescopio con cui l’emiro si divertiva a guardare le stelle. Un giorno si ruppe e il Khan mandò a chiamare l’Orlandi, che era ubriaco. L’emiro annunciò che gli avrebbe salvato la vita solo se si fosse convertito all’Islam, ma l’italiano rifiutò. Il sovrano, allora, gli fece un taglio superficiale sul collo per dimostrare che non scherzava e lo sbatté in cella tutta la notte dicendogli che aveva tempo fino all’alba per convertirsi. La mattina dopo l’Orlandi era ancora fermo sulle sue convinzioni e fu ucciso.
Oggi l’Ark è un edificio ricostruito davanti a uno spiazzale di mattoni che un tempo ospitava un rumoroso bazaar nonché le esecuzioni dei condannati; manca l’orologio e la fossa buia è stata chiusa, dopo che al tempo dell’URSS era stato, invece, un museo degli orrori sull’emirato con tanto di riproduzione del buco, nel quale si vedevano fantocci dall’aria disperata e vermi carnivori tenuti in vita in contenitori di vetro.
Ogni epoca racconta solo la parte della storia che più gli interessa.
L’Ark in realtà fu raso al suolo dai russi nel 1920 e fu quella la prima volta che i bukharesi videro gli aerei, gli “uccelli di ferro”.
Oltre alla fortezza-museo e alle mura ricostruite dalle quali fare foto della città, a Bukhara si possono vedere alcuni monumenti interessanti - tutti rifatti e tutti ospitanti negozi di souvenir in quelle he un tempo erano state moschee o celle per gli studenti.
Un bell’esempio ne è il Chor-Minor, una moschea con quattro minareti voluta da un mercante turcomanno; la moschea di Magoki Attori, risalente ai secoli XII-XVI, con alcune parti ancora originali e le decorazioni turchesi scrostate; la bellissima madrasa di Ulugh-Bek, considerata la più antica dell’Asia Centrale; i caravanserragli rimessi a nuovo che ospitano bancarelle di gioielli, sciarpe e ricordini; la casa di Fayzullah Khodaev – colui che aiutò i Bolscevichi a entrare in città per rovesciare il sovrano e poi epurato da Stalin nel 1938. La dimora è un monumento alla damnatio memoriae: si può ammirare il bel cortile della casa e all’interno le decorazioni sono ancora le stesse, ma non v’è più nulla, né una spiegazione né altro. Nella “cucina” c’è una piccola mostra sui piatti nazionali uzbeki.
Raramente a Bukhara e Samarcanda c’è qualcosa che non sia un guscio vuoto, come la moschea di Bolo Hauz, ancora in uso. Passeggiando per le tristi strade fuori dal centro storico, o turistico per meglio dire, abbiamo scoperto le inaccessibili rovine di un bagno termale e la Forgotten Madrasa, un’antica scuola coranica non restaurata, tutta di mattoni cotti e crepe. Non si può entrare ma tra le sue pericolanti stanze c’è un solo, piccolo, miserabile studio di un’estetista, forse il più economico della città.
In questo tripudio disneyano di hotel in finto stile mediorientale e costosi ristoranti dove si mangia male, si arriva al complesso di Poi-i-Kalyan, che letteralmente significa “ai piedi della torre”. Ed è qui, infatti, che si innalza l’impressionante minareto simbolo di Bukhara. Alto 47 metri, le sue decorazioni mutano di strato in strato, come fantasie di ricami. Fu l’unico monumento lasciato in piedi da Genghis Khan quando la sua orda mongola rase al suolo l’oasi. Si dice che rimase impressionato dalla sua grandezza e, infatti, colpisce ancora oggi in un’epoca in cui siamo abituati a opere colossali. Forse è per ciò che rappresenta: non era usato solo per il richiamo alla preghiera, ma anche come faro per le carovane che attraversavano il deserto da est e da ovest, dopo mesi di viaggio, nonché come luogo di esecuzione. Da lassù, infatti, venivano spinti i condannati a morte in un sacco, nel bel mezzo del mercato, così che più persone possibili vedessero che fine facevano i colpevoli. Ora il minareto, la moschea di Mir-i-arab e di Kalyan sono un luogo pacifico e tirato a lucido dove i turisti possono farsi fotografare.
La torre stagliata sulle luci vermiglie di un tramonto desertico è l’ultima cosa che vediamo prima di salutare Bukhara la Santa per dirigerci verso le desertiche terre del Karakalpakstan, la terra dei cappelli neri.
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