Ci sono alcuni nomi che hanno un’attrazione speciale per i viaggiatori. Nomi che risuonano come melodie antiche, carichi di leggende e visioni, promesse di un mondo che fu. Samarcanda, Machu Picchu, Timbuctu, Tanger, Malacca sono solo alcuni dei nomi che risuonano come canti di sirene nelle mie orecchie. Resistergli è impossibile e vorrei quasi trasformarmi in un pirata per raggiungere le loro rive o in un mercante a cammello seguito da una carovana attraverso i deserti per raggiungerne le polverose oasi.
Questo era per me Samarcanda.
Ciao, sono Alessandra! Non ho una foto scattata in piazza Registon a Samarcanda, ma te ne lascio un’altra dello stesso viaggio. Viaggio spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia.
Di recente ho esplorato l’Asia Centrale come donna che viaggia indipendentemente, e nelle mie Lettere ti racconto questa esperienza. Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Un sogno che va in frantumi
Al giorno d’oggi ci si arriva in treno o, peggio ancora, in aereo, distruggendo tutta la magia che dovevano provare gli antichi carovanieri quando avvistavano da lontano l’oasi dopo giorni e giorni di viaggio attraverso i deserti e la Steppa della Fame. Oltre alle palme, agli alberi e all’acqua, chi giungeva a Samarcanda si ritrovava al cospetto della città più bella del mondo, con le moschee e le madrase dalle cupole turchesi e gli intellettuali che passeggiavano per le sue vie.
Oggi, chi arriva a Samarcanda, si vede costretto ad attraversare le strade tra palazzoni di cemento prima di poter scorgere le famose cupole. Bellissime, magnifiche, luccicanti e del tutto nuove, ricostruite dai sovietici e perfezionate da un sagace governo che ha capito come far fluire valuta straniera nelle casse del Paese.
“Sembra la zona araba di Gardaland” commenta Alessia.
Come molte città del mondo – tra cui Venezia – Samarcanda soffre in modo acuto da overtourism. Vieni, scatta, vai. Se però a Venezia sono costretta a fare lo slalom tra i turisti, a ricevere parolacce quando passo davanti a qualcuno che sta facendo una foto e a essere fermata cinquecento volte al giorno per dare indicazioni perché non esiste un limite tra residenti e turisti, a Samarcanda questo problema non si pone. Gli abitanti sono stati trasferiti dietro i muri.
Dal finestrino dell'autobus, Samarcanda sembra una città qualsiasi, forse leggermente aspaziale. Siamo in Asia, si capisce dai visi mongoli delle ragazze nei loro vestitini color pastello, hanno capelli lisci e corvini e passeggiano libere mostrando braccia e gambe. Potrebbe essere la Cina, se non fosse che non esistono né rumori né odori molesti, senza menzionare l‘assenza della massa di gente che si riversa da ogni angolo e ti travolge. Invece è l’Uzbekistan, paese islamico e dittatoriale che solo di recente si sta aprendo al mondo e al turismo di massa. L’ultimo stato di polizia, lo chiamava Terzani nel 1991, sul piano politico era allo stesso livello del Turkmenistan e della Corea del Nord. La religione, nella cosmopolita Samarcanda, è meno oppressiva che nell’est del Paese, come per esempio nella Valle di Fergana.
Osserviamo quelli di Samarcanda oltre il vetro, il bus percorre un viale alberato che si apre su lustre vie costeggiate di ristoranti e, tra le fronde, filtra il turchese delle maioliche, quelle che si vedono in ogni cartolina dell’Uzbekistan.
“Chiudi gli occhi, non roviniamoci la sorpresa”, dice ancora Alessia, che a volte ha dei modi tutti suoi di fare le cose. Eppure, in quel poco che abbiamo scorto dai finestrini del bus, ci accorgiamo che manca qualcosa: la vita reale.
L’oasi dentro l’oasi: il giardino di Rose
Per raggiungere la guest house prenotata sul solito sito, smontiamo a Panzhakent Road (e quanto mi piace il suono che fa Panzhakent, nome di una città tajika. È un suono di abbondanza, di pienezza ma anche di orgoglio. Panzhakent.) Ci inoltriamo in stradine dall’asfalto sconnesso e alberi di fichi a proteggerci dal sole che sta riscaldando l’aria con sempre più prepotenza. Facciamo avanti e indietro un paio di volte senza trovare nessuna guest house, maledicendo Booking che non è sempre così affidabile. Google Maps, però, ci porta davanti al portone di una normalissima casa che sulle prime abbiamo ignorato perché non sembrava per niente un alloggio per visitatori.
“Senti, al massimo chiediamo informazioni” decidiamo, prima di premere il campanello. Il portone si apre e una grossa, gioviale signora dai tratti mongoli ci accoglie ridendo. “Ah, siete arrivate! Sì, sì, siete nel posto giusto. Entrate, entrate! Welcome, welcome!” Attraversiamo una reception-cucina decorata di rose finte e un cortile interno abbellito con piante e fiori sotto un arco di viti carichi di grappoli d’uva e dei nebulizzatori d’acqua per rinfrescare quel giorno che si prospetta soffocante.
La signora, che soprannominiamo Rose, ci fa togliere le scarpe prima di condurci in una camera matrimoniale. Rose finte decorano anche questa stanza, altre rose sono stampate sulla tappezzeria e la trapunta, in un angolo ci sono un bollitore con delle bustine di tè – tra cui del tè alle rose – e un profumatore d’ambienti alle rose. Un romantico e infantile mondo di fiori che abbiamo paura di inquinare con i nostri zaini sozzi.
“Riposatevi pure, intanto datemi i passaporti per il check-in”.
Quando torniamo a prendere i documenti, scopriamo che sul tavolo sotto l’arco di viti c’è uno di quegli enormi, saporitissimi meloni dell’Asia centrale tutto per noi. “Mangiate”.
Presto scopriremo che l’obiettivo della signora Rose è quello di rimpinzarci come una mamma apprensiva e, infatti, ci chiama le sue beautiful daughters. In quel mondo femminile di rose ci siamo solo io, Alessia, Madama Rose a una donna delle pulizie, un universo a parte dove possiamo goderci il fresco, i manicaretti di Rose e gelato a volontà (il tutto offerto dalla proprietaria, perché il cibo non è incluso nella prenotazione. Come si fa a non amare gli uzbeki?).
I meloni dell’Asia centrale sono famosi per la loro dolcezza, e sono così carichi d’acqua che si sciolgono in bocca. Trascorrere ore nella desertica calura uzbeka per addentare quel frutto fresco e dissetante è uno di quei piccoli, immensi piaceri della vita che si possono provare solo in occasioni speciali e alquanto scomode. Come una visita in un’oasi cementificata in mezzo al deserto a fine luglio, per esempio.
Samarcanda e l’overtourism: nascondere gli abitanti
All’inizio Alessia e io non capiamo bene cosa significhi che la gente del luogo abita dietro i muri, ma poi, camminando lungo lo scintillante viale principale, Registon Ko’chasi, scorgiamo un uomo scarno dalla pelle abbronzata e lo zucchetto in testa uscire da una porticina ricavata in un muro che si apre tra un edificio e l’altro, perfettamente mimetizzato agli occhi delicati dei turisti che non devono vedere come vivono i local, le loro case diroccate e i bambini scalzi. Oltre la parete, l’ex zona ebraica di Samarcanda, oggi abitata da tajiki – l’etnia maggioritaria in questa città – è un reticolo di polverosi e stretti vicoli che si estendono oltre i muri innalzati per cancellare la vera Samarcanda e rifilare ai visitatori una versione turchese che sbrilluccica così tanto da accecare. Andiamo alla ricerca della sinagoga, nascosta tra le viuzze. Oltre a noi, c’è un'altra coppia di turisti in quel luogo dimenticato da ogni dio e un uomo esile e dall'aria stanca ci accoglie per mostrarci il tempio: lui è uno dei pochi ebrei rimasti in città. “Siamo meno di mille” ci comunica con malinconia. Con la kippah in testa, ci guida nella piccola sinagoga, composta da due stanze distinte: una dedicata ai sefarditi e l'altra agli ashkenaziti. Ci narra le vicende dei custodi che lo hanno preceduto e ci mostra libri antichi. Alla fine ci chiede una donazione. Non se la passano molto bene gli ebrei in questo paese che venera Allah e Karimov quasi allo stesso modo.
A parte noi quattro, non avvistiamo molti stranieri nei vicoli dietro i muri. Solo donne avvolte in camicioni sformati e dai colori sgargianti con i pantaloni in tinta e uomini che richiamano la nostra attenzione con schiamazzi e strombazzate di clackson. Di continuo.
“Dievushki, atkuda? Ragazze, di dove siete?”
Hanno tutti la pelle scura, le sopracciglia folte e i tratti indoeuropei contrapposti a quelli mongoli incontrati in queste ultime settimane.
Storicamente, Samarcanda è sempre stata una città tajika prima che Stalin tagliasse l’Asia centrale in modo del tutto arbitrario assegnando città di un’etnia a un altro paese all’insegna del motto divide et impera. I tajiki sono anche i più poveri. Questi discendenti dei mercanti della via della seta ci osservano con curiosità sotto le fronde dei fichi, una bimba di sette o otto anni ci rincorre per dare a ognuna di noi una sberla su una natica con la manina appiccicosa di melone.
Il giardino di Rose è anche il rifugio dove ci lecchiamo le ferite provocate dalla delusione. Per quanto gli edifici di Samarcanda siano instagrammabili e a primo impatto provochino meraviglia, ci sentiamo prese in giro. Viaggiando per quasi due mesi, Alessia e io abbiamo dovuto optare per le guest house a conduzione familiare, anziché gli hotel che di solito si trovano a pochi passi dai siti di interesse turistico. E meno male, non solo perché ci siamo ritrovate a trascorrere i pomeriggi con una signora uzbeka di mezza età senza fronzoli né cerimonie, ma anche perché, per raggiungere il Giardino di Rose, siamo dovute passare attraverso strade e quartieri che altrimenti non avremmo visto: quelli degli abitanti più modesti, quelli con tanti bambini che giocano per le vie e che ti inseguono ridendo, quello con le vecchie Lada e gli anziani seduti in cerchio nel cortile della moschea. Quelli che sono stati nascosti agli stranieri.
“Questa? L’abbiamo ricostruita con i soldi che ci mandano i parenti dall’estero, il governo non ci dà un copeco” ci comunicano indicando il piccolo centro di culto. Certo, tutti i soldi del governo vanno al di là del muro, in via Registon, la via dove scintillano gli hotel per turisti e i ristoranti con il bollino di Tripadvisor, la via dei tour organizzati e delle foto in posa davanti alle cupole turchesi costruite pochi anni fa, così diverse da quelle secolari innalzate dalla dinastia dei Timuridi. Forse poco lontano da lì, in una certa tomba, Tamerlano si sta rigirando senza posa ancor peggio di quando i comunisti la aprirono per vedere se fosse effettivamente zoppo. Le conseguenze, all’epoca, furono devastanti.
Lungo il viale alberato di Registan Ko’chasi si può passeggiare all’ombra dei pioppi per acquistare il solito souvenir a forma di moschea di Bibi Khanum, la calamita per il frigo della nonna e il portachiavi di Tamerlano per il papà. Non una cartaccia, non un mozzicone a terra. Il plov qui costa più dell’alloggio da Madama Rose e una gelateria simil-italiana con, tanto per cambiare, la voce di Celentano che fuoriesce dagli altoparlanti, ospita i viaggiatori stanchi per le troppe stories sui social.
Mi viene in mente Tiziano Terzani che venne a Samarcanda per festeggiare il suo compleanno nel settembre del 19911. Era in giro per le repubbliche sovietiche durante la caduta dell’URSS e riuscì a sfuggire alla polizia di Tashkent per un paio di giorni per visitare Samarcanda e Bukhara. Quasi 34 anni fa, Terzani ne rimase deluso. Dov’era la Samarcanda leggendaria di tutti i racconti dei grandi viaggiatori del passato? Di essa non erano rimaste che rovine sgretolate schiacciate tra i palazzoni sovietici e spie politiche ovunque. Oggi, l’Uzbekistan, avvedutosi di quell’errore, ha deciso di asfaltare tutto, ricreare alla meglio i luccicanti mausolei e moschee di secoli prima e di sbattere gli abitanti dietro i muri.
Vagando qui e lì davanti a decine di occhi curiosi, ci inoltriamo nei vicoli. In uno di questi scoviamo un negozio d’antiquariato per i nostalgici: busti di Lenin di tutti i tipi, monete dei tempi dell’Unione Sovietica, medaglie che i veterani hanno venduto dopo la Caduta per comprarsi da mangiare, dei bellissimi porta-bicchieri di peltro che si sono usati fino al covid-19 per bere il chay nei treni dall’Ucraina all’Estremo Oriente russo; sete, tessuti e gioielli di stampo uzbeko. Acquistiamo qualcosina prima di ritornare nel Truman Show costruito dal governo ai benefici dei turisti per ammirare la moschea di Bibi Khanum al tramonto.
In quel momento, al cospetto di quella che un tempo è stata la moschea più bella e più grande del mondo, Samarcanda riacquista ai miei occhi il suo status di Perla della Via della Seta. Anche noi abbiamo viaggiato molto prima di poter godere del premio che questa città-oasi offriva ai carovanieri: una bellezza così immensa da dare un senso al cammino fatto.
Forse sono ingiusta a giudicare questa città con così veemenza. Cosa ne so io del tempo perduto degli uzbeki che ora cercano di riappropriarsene per mostrarlo orgogliosi al mondo? Cosa ne so io di un paese devastato da disastri ambientali, della perdita del quarto lago più grande del mondo, della desertificazione che ne è conseguita, del sale e del concime che penetrano nei loro polmoni? Come posso io giudicare un paese invaso dalle forze straniere e poi trasformato in uno stato di polizia e dove una parola sbagliata poteva farti sparire? Non ha forse questo paese il diritto di riavere quell’antico orgoglio che tutti, sapienti, viaggiatori, mercanti, carovanieri, religiosi, hanno rispettato nei secoli?
Poi guardo ancora una volta i rondoni che garriscono, le torri diroccate che si stagliano sul vermiglio del tramonto, le lucide piastrelle turchesi e lascio andare tutti quei pensieri per godermi Samarcanda.
Vuoi farlo anche tu?
Per aiutarti a spianare la tua strada nel mondo, ho deciso di condividere tutto ciò che ho imparato. Sono consigli sinceri e spunti preziosi, frutto di esperienze fuori rotta e di una ricerca inesauribile sul posto.
Se hai il sangue che ti ribolle nelle vene pensandoti in viaggio e desideri quella spinta in più o quei consigli che possano aiutarti a rendere il tuo percorso più facile, sono qui per te.
Lettere dall’Oriente è e sarà sempre gratuito. Ogni articolo è frutto di lunghe ore di scrittura, di studio e di revisione: gli daresti del valore e te ne sarei grata qualora decidessi di supportare questo piccolo progetto.
Tiziano Terzani, Buonanotte Signor Lenin, Tea, 2018.
Leggi anche…
Samarcanda è un suono che attanaglia il cuore
Scrivere di Samarcanda è un’impresa complessa, se non altro per il carico di aspettative che porta con sé.
Il baco nella tazza di tè
Scrivo dal giardino della Evergreen Guest House sotto un pergolato di viti e grappoli d'uva acerbi. L’aria nella Valle di Fergana è fresca: ieri sera ha piovuto e i fiori, le palme, gli alberi si sono schiusi riempiendo l’aria di effluvi. La penna scivola sulla pagina del mio quaderno con in copertina un acquerello della Madonna della Salute di Venezia,…
Il sanguinario Khan della città dei maiali
È una mattina di luglio e i gestori della Evergreen Guesthouse di Margilan ci viziano con leccornie di tutti i tipi nel loro giardino colorato di fiori e di alberi da frutto. Dopo una colazione a base di ruote di pane uzbeko - il non - uova, marmellata, noci, albicocche secche, frutta fresca, formaggio, datteri e tè a volontà, ci dirigiamo alla a
I confini sono come i würstel
Viaggiare via terra significa attraversare frontiere e attraversare frontiere significa immergersi in un luogo dove non esistono più “io” e “te”; le lingue, separate, si fondono in una sola e non importa in quale dei due idiomi si parli, ci si capisce comunque.