“Biglietto, prego. Grazie.”
Una delle frasi che ho sentito più spesso nella mia vita. In aeroporto, sugli autobus, nei treni. Nei treni, soprattutto, questa parola ha quasi un altro sapore. Nella mia immaginazione alimentata da storie di viaggiatori del passato, il treno dovrebbe estendersi in ogni angolo del mondo, unire i popoli più lontani, ma con dolcezza, senza la violenza degli aerei
.Un paio di volte sono finita su vecchi treni polacchi, quelli che uniscono ancora l’antico impero austroungarico: Cracovia, Katovice, Ostrava – la città delle miniere e degli impianti del ferro abbandonati (ancora l’abbandono!) – Olomuc, Brno, Vienna, Bratislava, Györ, Budapest. Cinque paesi in un solo treno, che scorrono piatti oltre il finestrino della carrozza ristorante. Sembra il salotto di una vecchia zia con i tavoli di legno, le tendine e una piccola abat-jour di tessuto bianco fissa al centro di ogni piano. Piccoli tocchi mitteleuropei mentre l’addetto scalda panini imbustati nella plastica.
Nei treni ucraini che, almeno fino a prima della guerra, viaggiavano sulla terra piallata di fitti boschi di betulle non c’è il vagone ristorante, ma una vecchia signora in ciabatte che serve acqua bollente insieme a una bustina di tè, una di caffè solubile e una di zucchero. Prima del covid-19 portava dei bicchieri in vetro usati e riusati nel corso dei decenni, infilati in porta-bicchieri di peltro con in rilievo immagini del Paese o antichi simboli sovietici. E si sta lì a sorseggiare qualcosa di caldo, le rotaie scorrono lente tra i boschi di betulle che coprono la parte ovest dell’Ucraina. Tu-dun, tu-dun, tu-dun tutta la notte con la luna che filtra tra gli alberi dalla corteccia bianca e il finestrino impolverato, mentre si è distesi su una cuccetta ad ascoltare il respiro degli sconosciuti.
Peccato che gli autobus a lunga percorrenza e gli aerei low-cost abbiano soppiantato i treni in molti paesi. In altri no, la Cina investe tantissimo nelle ferrovie ed è una delle nazioni con il miglior sistema ferroviario al mondo. Si può arrivare ovunque, anche in Tibet. Nel Paese di Mezzo, come lo chiamano i cinesi stessi, c’è la tratta ferroviaria più alta del pianeta: Pechino-Lhasa 48 ore. Si abbandona la metropoli con le sue strade a sei corsie, si attraversano le pianure polverose del Nord, la Mongolia interna, si passa per le praterie e i laghi celesti del Qinghai e poi si sale su, su, fino all’altopiano tibetano, in paesaggi brulli e rarefatti come l'aria di lassù.
Una cosa a cui la Cina tiene tanto sono i GaoTie, i treni-bolidi che vanno a 450km orari, come i famosi Shinkansen giapponesi, ma ci sono tutti i tipi di treno: i più lenti si dividono in vagoni con sedili morbidi e sedili duri e cuccette morbide e cuccette dure. I sedili “duri” sono i più economici e vanno bene per le tratte brevi. Una volta il mio biglietto è stato declassato – chissà perché – e mi sono ritrovata a trascorrere la notte sulla tratta Pechino-Xi’An (dove iniziava la via della seta) nel vagone dai sedili duri. Per andare in bagno ho dovuto camminare su un’umanità sdraiata nella corsia dall’intenso odore di effluvi umani. Tutte queste persone arrotolate l’una sull’altra tra i sedili avevano probabilmente comprato un biglietto “senza posto” e così ora dormivano abbracciati a sconosciuti nel corridoio con la puzza di fumo che proveniva dal vano tra i vagoni. Un viaggio sicuramente più caratteristico di quello nei GaoTie.
Di solito, però, dormivo nelle cuccette dure tra cinesi che sgranocchiavano un’infinità di spuntini imbustati a uno a uno: dolcetti con il prosciutto dolce, carne essiccata, semini. Non vedevano l’ora di condividerli con l’unica straniera tra quei 6 lettini, 3 da un lato e 3 dall’alto. “Da dove vieni, chi sei, dove vai? Perché non sei su un aereo? Come mai parli cinese? È vero che in Italia avete tutti una Ferrari?”
Così si raggiungono posti lontani, ma con dolcezza: fuori dal finestrino c’è uno schermo reale, sul quale si vede cambiare il mondo in modo naturale. Le fumose zone industriali delle grandi città, i campi di sorgo, le valli tra i grandi fiumi, i graziosi monti nel sud tropicale, mentre si mangiano zuppette di noodles istantanei preparati con l’acqua del bollitore comune, frutta che viene venduta in contenitori di plastica e si chiacchiera con contadini e operai dagli occhi a mandorla.
A volte vale la pena prendere il treno anche solo per vivere panorami mozzafiato, come quello tra Sarajevo e Mostar, con la ferrovia che si snoda su ponti di pietra tra una galleria e un’altra, molto al di sotto di noi, nelle valli, villaggi di altri tempi. Il verde è il colore della Bosnia, come le sue foreste che ricoprono i versanti tra i quali fluiamo nel vagone dondolante. Come l'edera che si arrampica sulle lapidi del cimitero ebraico, un tempo – trent’anni fa – divelte e usate come scudo dai cecchini serbi. I nomi dei morti sono crivellati, anche se la lapidi sono state rimesse al loro posto e il terreno bonificato dalle mine. Qualcuno potrebbe obiettare che il colore di Sarajevo è il rosso, ma io direi, piuttosto, il grigio dei palazzi rimasti lì con i loro buchi in memoria del dolore passato
Il treno barcolla sui vecchi binari sospesi sui burroni. La gente si alza e si ammassa da un lato per ammirare il panorama tra un tunnel e l’altro. Da un lato la montagna, dall’altro il nulla. Il treno continua a scorrere tra i massicci illuminati e il blu del fiume Naretva fino a che non arriviamo nei pressi di Mostar: il cielo sui monti si annerisce e le saette rendono il paesaggio quasi spaventoso. Un fulmine colpisce una pala eolica sulla cresta di un monte, il cielo è nero, la tempesta si abbatte su di noi. Il tempo è cambiato repentinamente: poco prima potevamo assaporare tutta la bellezza della Bosnia solitaria, dall’alto del nostro treno, come degli dei. Scorrevamo sopra e attorno i villaggi che punteggiano la catena montuosa, in bilico, poi il buio dei tunnel e poi ancora la luce, la foresta, il fiume sotto, giù giù in fondo. Siamo scesi anche noi, poco prima che scoppiasse la tempesta: eravamo al livello del fiume, così azzurro, al di sotto dei monti ora, prima che si oscurasse tutto e noi arrivassimo nell’antica città di Mostar, con il famoso ponte ad arco costruito dagli Ottomani e bombardato dai Serbi.
Il treno mi sembra davvero il modo più naturale di viaggiare per una persona dei giorni nostri: un mezzo di trasporto che collega non solo luoghi lontani, am anche umanità lontane.
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