Scrivere di Samarcanda è un’impresa complessa, se non altro per il carico di aspettative che porta con sé.
Siamo arrivate nella “città dorata” un sabato mattina di luglio, con un treno dalla capitale Tashkent. I treni uzbeki a breve percorrenza sono moderni, larghi e comodi e il personale offre bibite e snack gratuiti.
Tra le due città si stende una piana sterile dove è impossibile trovare un albero o un corso d’acqua e che ha il sinistro soprannome di “steppa della fame”, affibbiatogli dai soldati russi periti d’inedia durante la conquista delle terre uzbeke. La prima cosa che ha colpito me e Alessia, non appena abbiamo messo piede a Samarcanda, è stata l’assenza di veli a coprire le teste femminili. Le donne, quasi tutte in vestitini color pastello, passeggiavano libere tra i viali, al contrario di quelle della Valle di Fergana che ci eravamo appena lasciate alle spalle, uno dei luoghi più ferventi dal punto di vista religioso di tutta l’Asia Centrale. Lì le donne sono avvolte in tuniche coprenti e lo chador nasconde bene i capelli, le orecchie e il mento. Un’altra differenza tra la zona centrale e quella orientale dell’Uzbekistan sono i lineamenti delle persone: qui sono affilati, con le labbra carnose e la carnagione olivastra come quella dei mediterranei: sono i tajiki, i persiani, diversi dai turchi uzbeki con i loro visi mongoli. Nel marasma di etnie che si intrecciavano sulle vaste terre centrasiatiche, nessuno si era mai domandato cosa appartenesse a chi fino al 1991, l’anno della caduta dell’Unione Sovietica. Ora, il Tajikistan reclama Samarcanda e Bukhara.
Ciao, sono Alessandra e in questa foto cercavo di mettermi in posa per la foto di rito al mausoleo di Bibi Khanum, che ha una leggenda pazzesca e una storia ancora più strana. Iscriviti gratuitamente per leggere di racconti, viaggi e storie dall’Oriente.
Viaggio a Samarcanda, la città che canta
Nella “città dorata” nel 1938 nacque il dittatore e primo presidente dell’Uzbekistan Islom Karimov. Samarcanda ruota intorno a lui, come un tempo le città sovietiche ruotavano intorno a Stalin e a Lenin. Camminando per le strade di cemento in quell’antica oasi sulla Via della Seta, la prima cosa in cui ci siamo imbattute, prima ancora delle cupole turchesi e delle storie dei carovanieri, è stata una statua a grandezza naturale di Karimov sotto la quale si facevano fotografare coppie di neosposi. Lui, impettito sul piedistallo al centro del parco, benediceva le famiglie in abiti nuziali occidentali. Poco lontano, delle colombe dipinte di fucsia aspettavano nelle gabbie il loro turno di essere liberate e fotografate per dare quel tocco kitsch che in Asia non manca mai.
Nella “città che canta”, come viene soprannominata, nella capitale dei Timuridi dalle cupole turchesi – il colore dei turchi – nella leggendaria e più bella oasi sulla Via della Seta dove i carovanieri si fermavano a riposare, mercanteggiare e ammirare gli opulenti edifici, si viene per realizzare un sogno. Come dice l’autore inglese Colin Thubron, “Samarcanda non evoca una città terrena, ma è un suono che attanaglia il cuore.”1
Vanta una storia di oltre 2.500 anni. Nel 329 a.C. fu conquistata da Alessandro Magno che vi soggiornò per circa un anno. Le tracce di quelle invasioni sono ancora visibili ovunque: la città di Termez, distante 360 chilometri, al confine con l'Afghanistan, conserva il nome datole dai soldati macedoni e tra le montagne del Pamir vivono ancora villaggi le cui popolazioni si ritiene discendano dai greci dell’epoca. Alla fine del VII secolo giunsero gli arabi, che imposero l’Islam, cancellando le antiche religioni zoroastriana e buddhista. Nel 1220, fu la volta dei mongoli: Gengis Khan distrusse Samarcanda, lasciandola in rovina.
La perla dell’Islam voluta da Tamerlano
Nella seconda metà del XIV secolo emerse un’altra figura leggendaria della storia asiatica: Tamerlano. Tra il 1382 e il 1405, anno della sua morte, Tamerlano creò un vasto impero che si estendeva dall’Europa all’India. Fece ricostruire Samarcanda, elevandola a capitale del suo regno. Dopo di lui, il potere passò prima al figlio e poi al nipote, Ulug Beg, un sovrano straordinario, celebre per la sua cultura, nonché grande matematico e astronomo. Ulug Beg regnò per quarant’anni, ma fu vittima di una congiura di fanatici musulmani che lo giustiziarono e distrussero il suo osservatorio, simbolo del sapere dell’epoca. Si crede che Tamerlano non fosse uzbeko, poiché gli uzbeki come popolo non esistevano ancora ai suoi tempi. Il loro nome, che significa "padroni di sé stessi", comparve solo nel XVII secolo.
In seguito, con l’inizio del commercio marittimo da parte degli europei, le città sulla Via della Seta persero gran parte della loro potenza. L’incuria, i terremoti e il tempo fecero il resto. Quando i russi arrivarono a Samarcanda, i pochi edifici rimasti in piedi non erano altro che pareti pericolanti e cupole crepate.
Nelle foto scattate il secolo scorso si scorgono soprattutto rovine. Se paragoniamo un’immagine del passato a una odierna possiamo vedere cosa i comunisti prima e il regime poi hanno creato: un parco giochi. Gli edifici della “città dorata” oggi sono tutti integri, bellissimi e luccicanti; i muri sono impeccabili, le tessere decorative al proprio posto, le cupole del turchese più romantico. Le facciate delle madrasse – le università coraniche – del Registan sono tirate a lucido. Anche l’Uzbekistan, specie dalla morte di Karimov nel 2016, si è fatto abbagliare dalla corsa al denaro facile: quello portato dai visitatori stranieri.
Gli edifici originali di Samarcanda furono costruiti dai migliori ingegneri, architetti, artisti e lavoratori fatti prigionieri nel resto dell’impero durante le conquiste dei Timuridi: Tamerlano voleva solo il meglio per costruire la città più bella e più colta del mondo, la “perla dell’Islam” e fulcro della sapienza mondiale; città che, a quanto pare, non abitò mai preferendole un accampamento fuori città, lui uomo delle steppe.
Scienza, astronomia e decapitazioni
Qui, nel “posto della sabbia” – questo il significato di Registan, la piazza principale della città dove un tempo si teneva un coloratissimo e vivace bazaar frequentato da chiunque attraversasse la Via della Seta, proprio dinanzi alle tre madrasse dove disquisivano gli studenti – vi si trovano solo dei gusci vuoti affinché i turisti scattino la foto perfetta per i social media. Lo stesso destino è toccato al mausoleo di Tamerlano e all’Osservatorio di Ulug Beg, dove il khan-scienziato calcolò la rotazione della Terra con il suo enorme astrolabio con uno scarto di soli 25 secondi. L’osservatorio è basato su un sistema di specchi e un gigantesco sestante, le cui rotaie impressionano ancora oggi. Dopo nove anni di lavoro, riuscì a localizzare ben 1.200 stelle e a compilare le sue celebri tavole astronomiche, opere di immenso valore scientifico. Tuttavia, le sue ricerche non erano viste di buon occhio dal clero musulmano, che considerava tali studi contrari alla fede. Nel 1449, Ulug Beg fu vittima di una congiura organizzata da un gruppo di fondamentalisti, a cui partecipò persino suo figlio. Il grande sovrano e scienziato fu deposto e giustiziato con brutalità: una scimitarra gli mozzò la testa con un colpo netto. L’osservatorio, considerato un luogo di peccato e perdizione, venne incendiato dalla folla istigata dai mullah. Tuttavia un suo fedele allievo riuscì a salvare la preziosa biblioteca e i manoscritti, preservando l’eredità scientifica di Ulug Beg.
La moschea di Bibi Khanum e il bacio adultero
Lo scintillio delle nuove ricostruzioni è simile per tutti gli altri monumenti, come l’Ak-saray dinanzi al mausoleo e la moschea di Bibi Khanum, un tempo il centro di culto più grande del mondo musulmano: questo raffinatissimo esempio di arte centrasiatica fu devastato dal suo stesso peso, da terremoti, dalle cannonate dei russi nel 1868 e dall’incuria dei bolscevichi. All’ingresso della moschea c’è un enorme leggio di pietra a nove gambe che ospita il Corano più vecchio al mondo, tutto rilegato in oro e con un peso di 300 chili: è il Corano che stava leggendo il genero e successore di Maometto, Osman, quando fu assassinato. È ancora sporco del suo sangue. Quando sono andata a Samarcanda era racchiuso in una teca di vetro, ma per secoli le donne sterili hanno rispettato la tradizione di passare per tre volte sotto al leggio, a digiuno, nella speranza di rimanere incinte di un maschio, prima che i russi lo portassero a San Pietroburgo. Fu restituito agli uzbeki nel 1991.
Sia la storia che la leggenda legate alla moschea di Bibi Khanum sono affascinanti.
Quando Tamerlano partì per una delle sue spedizioni militari, diede ordine di far innalzare due moschee, una scuola coranica e una foresteria per i pellegrini entro il suo ritorno. L’architetto a capo dei lavori era un persiano di Mashhad, nell’attuale Iran, che si innamorò di Bibi Khanum, la moglie favorita tra le nove dell’imperatore, e la minacciò di non portare a termine i lavori per tempo se non gli avesse dato un bacio. Lei gli offrì le donne più belle di Samarcanda, ma l’architetto non mollò fino a che Bibi Khanum non cedette: quel bacio adultero le lasciò una bruciatura sulla guancia e fu costretta a indossare un velo, lo chador, per celarlo. Per evitare sospetti da parte del marito, invitò tutte le suddite a fare lo stesso. Quando Tamerlano tornò e scoprì il tradimento, mandò i soldati a tagliare la testa all’architetto il quale, secondo la leggenda, mise le ali e spiccò il volo dalla torre più alta dell’edificio per fuggire a Mashhad. Bibi Khanum non fu altrettanto fortunata e la moschea eretta in suo onore divenne il suo stesso mausoleo, dove fu seppellita viva. Infine, l’irato Tamerlano ordinò a tutte le donne di portare per sempre il chador. Questa la leggenda.
Quello che invece sappiamo per certo è che quando il condottiero tornò e vide che la moschea non era della grandezza desiderata, la rase al suolo e fece uccidere gli architetti. L’edificio fu presto ricostruito a scapito della qualità e incominciò a inclinarsi già durante i lavori. I fedeli non vollero andarci a pregare e, infatti, crollò del tutto nel XIX secolo. Oggi è quasi interamente ricostruita, tranne per l’edificio in fondo al cortile che presenta ancora tutte le sue crepe.
A Samarcanda quasi ogni monumento è avvolto da un alone di mistero, come nel caso del Re Vivente o dei resti del glorioso condottiero, la cui storia si fa ancora più inquietante. Nel mausoleo di Tamerlano, cinque tombe opulente si trovano esattamente sopra le vere sepolture, più modeste e nascoste nella cripta sotterranea. Qui riposano Tamerlano, due dei suoi figli, Ulug Beg e una quinta figura, la cui identità è rimasta sconosciuta.
La maledizione di Tamerlano
Sulla tomba in nefrite di Tamerlano si legge un’iscrizione che celebra la sua grandezza: “Qui riposa il più illustre e generoso dei monarchi, il più grande sultano, il più potente guerriero, l’emiro Tamerlano, conquistatore del mondo intero.” Secondo un’antica profezia, chiunque avesse disturbato il sonno eterno di Tamerlano avrebbe attirato una terribile disgrazia sull’intero Paese. Non sorprende, quindi, che la popolazione di Samarcanda fosse nel panico quando, nel 1941, un gruppo di archeologi sovietici decise di aprirne la tomba. L'obiettivo era confermare alcune storie tramandate nei secoli. Tamerlano era davvero zoppo a causa di una caduta da cavallo in gioventù? E Ulug Beg era stato decapitato dopo essere stato deposto? La notte del 2 luglio 1941 i sovietici aprirono le tombe per scoprire che le leggende erano vere. All’alba, su tutto l’impero si abbatté la maledizione: Hitler aveva invaso l’URSS e le armate tedesche avanzavano in contemporanea su Leningrado, Kyiv e Mosca.
La Seconda Guerra Mondiale era scoppiata anche per l’Unione Sovietica.
Dopo il giro d’obbligo Registan-Mauseoleo-Aksaray-plov e dopo aver scoperto un bellissimo negozio d’antiquariato zeppo di mezzi busti di Lenin, divise militari e medaglie dei veterani, Alessia e io torniamo alla moschea di Bibi Khanum all’ora del tramonto. Al suo cospetto mi sento minuscola, incantata. I rondoni volano tra le torri garrendo al sole che cala oltre la moschea e che dona una sfumatura d’oro alle cupole turchesi. Non per niente siamo in quella che viene chiamata “la città dorata”: i raggi si riflettono sui tasselli, sui mattoni, sui marmi. Infine si alza un alito di brezza. Mi siedo ad ammirare la moschea, così imponente. Originale o ricostruzione che sia, è davvero suggestiva. Vale la pena di vivere anche solo per venire a sognare le antiche carovane al cospetto delle cupole di Samarcanda, la terra che canta, in un’orgia di colori, tessuti, spezie, animali, viaggiatori, commercianti, scienziati e intellettuali. Uno scrigno di conoscenza che tutto il mondo ammirava. Mi sdraio su un muretto a osservare il turchese e l’oro del cielo e delle cupole con un senso di nostalgia: Samarcanda, Samarcanda. Questo nome che canta, che riempie il cuore, che fa immaginare avventure e luoghi lontani.
Ora che l’ho vista non potrò più sognarla.
Thubron, Colin, Il cuore perduto dell’Asia, Feltrinelli, 2007.
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