“Good morning, my beautiful daughters! Vi ho preparato la colazione!”
La cara Rose, la proprietaria della guest house dove alloggiamo e così soprannominata da noi per via della sua passione per le rose finte con cui ha decorato la magione, ci aspetta con un largo sorriso nel cortile. Sul tavolo sotto il pergolato di viti e nebulizzatori d’acqua per rinfrescare l’aria dell’estate uzbeka ci sono ruote di non, frutta, uova, würstel e l’immancabile melone dell’Asia Centrale, l’unica cosa che sembra dare ristoro dalla canicola.
“Dove andate oggi?” Il donnone, avvolto nella sua veste colorata, ci osserva mangiare come una mamma orgogliosa. Ha una voce acuta e dolce come di bambina.
“Ad Afrasiab!”
“Allora sbrigatevi, che oggi farà molto caldo e non sarà bello starsene lì nel nulla sotto questo sole.”
Ciao, sono Alessandra! In questa foto non sono in Uzbekistan fisicamente, ma con il cuore mentre scrivo queste parole. Viaggio spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia.
Di recente ho esplorato l’Asia Centrale come donna che viaggia indipendentemente, e nelle mie Lettere ti racconto questa esperienza. Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Afrasiab, o Maracanda per gli antichi greci.
A pochi chilometri dal centro dell’attuale Samarcanda sorgeva Afrasiab, antica capitale dei Sogdiani prima che vi passasse ogni tipo di civiltà, tra cui i cinesi e l’esotico esercito di Alessandro Magno. Fu qui, su questa altura oggi desertica ai confini dell’oasi di Samarcanda, che il Macedone prese in moglie Rossana e fu qui che, ubriaco, uccise il suo migliore amico Clito, colpevole di avergli ricordato quanto relativa fosse la sua gloria. Quante vite straordinarie come quella di Alessandro Magno e quante vite comuni si sono succedute su questa landa ondulata battuta dal sole centrasiatico di una tarda mattina di luglio? Ora non c’è più nessuno lì fuori tra l’erba riarsa alla ricerca di una rovina, una pietra, un muro crollato. Tutto il poco che è rimasto di Maracanda è dentro al museo, insieme all’aria condizionata e al resto dei visitatori oppure ancora immerso in quel terreno millenario spaccato dalla calura e dimenticato dalla storia.
Se si torna sulla strada asfaltata e si cammina un po’ nel sole, ci si ritrova all’inizio di un viale alberato in fondo al quale sorge il museo Afrasiab, dal nome del mitico re ed eroe persiano del Turan, ovvero l’Asia Centrale. Contrariamente a molti musei uzbeki, tipo quello dei Timuridi a Tashkent – una fregatura senza precedenti – vale la pena visitare questa piccola esposizione per farsi una vaga idea dell’ingarbugliata storia dell’Asia Centrale.
Afrasiab, ovvero Maracanda durante l’impero di Alessandro Magno, nacque circa 2700 anni fa sotto i sogdiani, popolo di mercanti che controllava il commercio tra est e ovest, dallo Sri Lanka al Mar Nero. Le linee temporali in Asia Centrale pare che scorrano come una spirale e seguire chi è succeduto a chi e quale impero ha conquistato cosa è un’impresa che non si può compiere in qualche ora un un museo. Studiare l’intricata storia di tribù, grandi civiltà e grandi invenzioni eurasiatiche è una sfida che richiede mesi.
Nella sequenza di popoli che si invadevano e scacciavano a vicenda vediamo i sodgdiani, i persiani, i mongoli di Genghis Khan che in una furia devastatrice rasero al suolo tutte le città dell’Asia Centrale; i nomadi Timuridi che costruirono un enorme impero, polo della sapienza dell’epoca, che poi venne distrutto a sua volta dagli Shabayinidi, popolazione uzbeka. Gli uzbeki, che significa “padroni di se stessi”, furono solo l’ultima di una lunghissima serie di popoli a installarsi con la violenza in questa regione.
Nel corso della storia, a Samarcanda e dintorni si sono praticati lo zoroastrismo, il nestorianesimo, l’ebraismo, il buddhismo e, solo infine, l’Islam.
Oggi è una regione poco visitata e poco conosciuta da noi europei, ma se siamo ciò che siamo lo dobbiamo anche all’Asia Centrale. È lì che ci siamo messi in contatto un po’ tutti, dal Mediterraneo alla lontana Cina: era proprio in quei luoghi che si incontravano il sapere e le tecnologie di tutti i popoli del nostro ipercontinente.
Il Re Vivente
Una peculiarità degli uzbeki moderni è la loro passione per le storie e le leggende. Oltre alla maledizione scatenata da Tamerlano quando i sovietici hanno aperto la sua tomba e alla storia del bacio fedifrago di Bibi Khanum che portò tutte le donne a doversi coprire con lo chador, un’altra bella leggenda di Samarcanda è quella del Re Vivente.
Il complesso di Shah-i-Zinda, che significa appunto il Re Vivente, è una necropoli di mausolei scintillanti di maioliche azzurre e iscrizioni coraniche nell’est della città. Tamerlano, Timur-i lang, Timur lo zoppo, vi fece seppellire la balia, un paio di figli e una moglie. Gli uomini a destra e le donne a sinistra. Oltre a loro, vi riposano le figure più importanti della dinastia dei Timuridi e, tutto intorno, oltre le mura, si estende il moderno cimitero della città, con i ritratti dei morti stampati sulle lapidi conficcate nel terreno disseccato. Non c’è un filo d’ombra e il caldo è spietato. Camminiamo tra le tombe constatando come in pochi siano giunti alla tarda età. Per puro caso, arriviamo alla necropoli di Shah-i-Zinda dall’alto, dai sentierini del camposanto dove le vedove meditano ingobbite. Di fronte a noi si stagliano i meravigliosi edifici a cupola con i versetti coranici sui portoni decorati, dimora della dinastia di Tamerlano.
L’imperatore zoppo scelse questo luogo di sepoltura poiché vi era già sepolto un famoso santo musulmano. Alcuni dicono che fosse Kasim Ibn Abbas, altri Akhmed Zaaman, il cugino di Maometto. Fatto sta che il santo venne qui per combattere gli infedeli, ma fu catturato e decapitato. Senza troppi complimenti, raccolse la propria testa e, portandola sotto il braccio, andò a rifugiarsi in un profondo pozzo poco lontano in attesa di una nuova guerra contro gli infedeli. Finora, questo spirito o martire non si è ancora mosso e grazie a lui il complesso di Shah-i-Zinda è diventato meta di pellegrinaggio: tre viaggi qui equivalgono a uno alla Mecca.
Le voci dicono anche che Genghis Khan rimase impressionato da questa storia e mandò due dei suoi uomini in fondo al pozzo per vedere se il Re Vivente fosse davvero lì sprofondato nel sonno. Quei due sventurati ne ritornarono accecati. Durante l’Unione Sovietica i pellegrinaggi erano vietati, ma ripresero con rinnovato vigore alla caduta dell’URSS. Oggi, non fosse per i veli sulla testa delle donne e gli zucchetti su quelli degli uomini, non si capirebbe la differenza tra turisti e pellegrini.
“Hey, dievushki! Ragazze!” Un giovane e una signora con il capo coperto che si aggirano tra le tombe attirano la nostra attenzione.
Fanno grandi gesti con le mani come a scacciarci. Li ignoriamo. Da che mondo è mondo si può entrare nei cimiteri, anche quelli islamici. Procediamo verso il muro che ci separa da Shah-i-Zinda. L’uomo, allarmato, corre verso di noi urlando in russo.
“Non potete entrare! Non potete entrare!” ci ferma con gesti nervosi.
“Ma non vogliamo scavalcare. Stiamo solo guardando” cerco di spiegarmi nel mio russo stentato. Intanto si avvicina la donna, infuriata anche lei.
“Non potete entrare da qui, dovete fare la fila e pagare il biglietto” insiste lei indicando il portone di ingresso dove si accalca la solita folla colorata di turisti con berretto e selfie stick.
Le nostre blande spiegazioni non servono a niente. La scena mi ricorda dei viaggi in Cina, dove la gente va in panico non appena vede dei turisti allontanarsi dal percorso pre-impostato. Nessuna di noi due aveva l’intenzione di entrare nella necropoli di nascosto, stavamo solo vagando tra le tombe di un cimitero pubblico – lo facciamo spesso, si possono dedurre un sacco di cose leggendo i nomi e le date sulle lapidi.
Amareggiate, siamo costrette ad allontanarci ma prima di tornare nel Giardino di Rose dove rifugiarci dal gran caldo sotto i nebulizzatori tra le viti mangiando melone e gelato, attraversiamo il cimitero ebraico, anch’esso con i ritratti stampati sulle lapidi nere, ma qui i cipressi e l’erba danno un po’ di sollievo e non ci sono parenti in visita a scacciarci.
Di Karimov e altri dittatori
Per continuare la nostra giornata all’insegna dei morti, al calar del sole andiamo a visitare il mausoleo di Islam Karimov, il primo presidente della Repubblica Uzbeka, nonché dittatore del calibro dei membri della famiglia Kim in Nord Corea o di Turkmenbashi in Turkmenistan.
Il mausoleo è l’unico luogo gratuito in città e i pellegrini si abbeverano alla fontana all’ingresso bevendo tutti dalle stesse scodelle di metallo messe lì a disposizione di chi ha sete.
Anche qui si aggirano pochi turisti stranieri e attorno alla costruzione di vetro che contiene la tomba di marmo bianco dell’ex presidente si scorgono solo famiglie di uzbeki. Quando il sole sparisce oltre l’orizzonte, il mullah inizia a cantare per la quarta chiamata alla preghiera del giorno – ṣalāt al-maghrib – e i visitatori allargano le mani a ventaglio per accogliere le benedizioni con il viso rivolto alla salma dell’ex dittatore. Mi ricorda delle file di pellegrini piangenti che lasciavano rose bianche attorno al corpo imbalsamato di Mao Zedong in piazza Tiananmen a Pechino.
Se però la Mao-mania in Cina è ancora in voga, in Uzbekistan non si vede quasi più nulla che ricordi l’ex presidente, eccezion fatta per Samarcanda, sua città natale. La salma imbalsamata di Mao Zedong con il viso ingiallito è al centro del mausoleo al centro della piazza al centro della Capitale. Un suo ritratto campeggia sul lato opposto, proprio sopra la porta della Città Proibita, per secoli dimora degli imperatori cinesi. Mao è sulle banconote, dietro le casse dei negozi, sui cappellini-souvenir, sui piatti, in formato statuina dorata. Le sue parole risuonano dagli altoparlanti nei parchi e il Libretto Rosso è in vendita su ogni banchetto in strada. A quarantanove anni dalla sua dipartita, i cinesi piangono ancora il morto, nonostante gli anni di persecuzioni, sparizioni, lavoro forzato, confisca dei beni privati, privazione della libertà di parola e tutti gli altri orrori di cui le dittature comuniste sono capaci. Per entrare nel suo mausoleo in piazza Tiananmen bisogna passare nel metal detector, far controllare il cellulare e comprare una rosa bianca. All’interno, lacrimano a decine prima di depositare il fiore con compostezza e dignitoso dolore come se fosse venuto a mancare ieri. Come se fosse un salvatore e non uno dei più grandi assassini mai esistiti.
Nei paesi dell’Asia Centrale, invece, morto un dittatore se ne fa un altro e ogni cosa sparisce. In Uzbekistan è rarissimo trovare un simbolo dei tempi dell’Unione Sovietica e il mio unico “incontro” con Islom Karimov è stato solo a Samarcanda. Le statue, gli emblemi, tutto viene cancellato alla loro morte. È successo persino con il regime di Turkmenbashi, “il padre dei turkmeni”. Saparmurat Niyazov, conosciuto appunto come Turkmenbashi, fu il primo presidente della Repubblica del Turkmenistan. Nel 1998 fece erigere il Monumento alla Neutralità nel centro di Ashgabat. Con un’altezza di 75 metri, poggiava su tre massicci pilastri che sorreggevano una piattaforma panoramica. La struttura culminava in una statua dorata di Turkmenbashi in abiti tradizionali uzbeki che indicava il cielo e ruotava seguendo il sole, un simbolo del ruolo centrale che Niyazov attribuiva a se stesso nella vita del paese. Nel 2010, il successore Gurbanguly Berdimuhamedow diede ordine di smantellare il monumento dalla sua posizione originaria e di ricostruirlo ridimensionato in una posizione più periferica, nel distretto sud della città, su un terreno sopraelevato. Questa decisione rifletteva un cambiamento simbolico sotto il nuovo presidente, che cercava di ridimensionare l’eredità del culto della personalità di Niyazov.
L’Uzbekistan oggi
L’attuale presidente dell’Uzbekistan, Shavkat Mirziyoyev, è in carica dal 2016, cioè dalla morte di Karimov, dopo 13 anni come Primo Ministro, Aspirando ad apparire al mondo come riformatore, ha tolto l’Uzbekistan dall’isolamento nel quale era rimasto dalla caduta dell’URSS, riallacciato rapporti con diversi paesi e per alcuni versi ha migliorato le libertà del popolo uzbeko.
Con delle riforme alla costituzione, Mirziyoyev potrà rimanere in carica fino al 2037. Secondo il rapporto dell'OSCE, le elezioni in Uzbekistan sono state caratterizzate da un ambiente privo di vere alternative politiche, come capita spesso in un paese autoritario. Il partito di opposizione "Verità, Progresso e Unità” non ha mai ottenuto la registrazione necessaria per partecipare alle elezioni dal 1991. Inoltre, la legislazione impedisce la candidatura di indipendenti, richiedendo il sostegno di partiti registrati. Sotto la presidenza di Mirziyoyev, la mancanza di concorrenza elettorale è rimasta costante, così come le restrizioni contro giornalisti, attivisti e blogger, con un aumento delle pressioni negli ultimi due anni. Queste restrizioni contraddicono gli obiettivi del progetto "Nuovo Uzbekistan", che mirava a riforme politiche oltre che economiche. Tuttavia, le riforme politiche sono state trascurate, e mentre la censura governativa centrale sembra essersi attenuata, quella esercitata da autorità locali è aumentata.
Insomma, in Asia Centrale la via per la democrazia è ancora lunga e il culto delle personalità niente di inusuale, né considerate pericolose dal Re Vivente.
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