Baku: città di vergini combattenti e spie incomprese
Lettera dalla petrolifera Baku, Azerbaijam
Ad Aktau, sulle sponde kazake del mar Caspio c’è un piccolo aeroporto con solo due gate e un baretto dove uomini dall’aria furtiva fumano indisturbati. Una scolaresca azera in uniforme ha vinto il secondo posto di chissà quale competizione e ora i ragazzi sono accasciati sulle panche, assonnati. Anche noi siamo assonnate, sono quasi le due di notte. Nella sala di fronte ai gate aspettano uomini bassi e pelosi che si muovono irrequieti avanti e indietro: prima vanno a conferire con questo, poi con quello, poi vanno a fumare, tornano e a coppie iniziano a chiacchierare guardandosi oltre le spalle. Due turkmeni, alti e dinoccolati, con la pelle bianca e i capelli rossi – lei legati sulla sommità della testa, lui con un ciuffo démodé, sono seduti ritti e osservano il nulla. Me li immaginavo diversi, i turkmeni. In fondo, chi li ha mai visti chiusi come sono nel loro Paese che ha una dittatura non meno rigida di quella della Corea del Nord? Chissà che ci fanno lì. Uno degli uomini inquieti si avvicina anche a loro. Si accoscia e gli parla sottovoce. La stanchezza ci spinge a fare congetture sempre più spaventose e io e Alessia ci ritroviamo a immaginare scenari apocalittici.
In effetti, mesi dopo, a Natale 2024, quello stesso aereo decollato da Baku è stato abbattuto dai russi, si dice, ed è precipitato ad Aktau. Il bar è chiuso, non possiamo neanche bere una birra per distendere i nervi, funge solo da sala fumatori. Infine ci imbarchiamo, decolliamo, attraversiamo il Mar Caspio e in quaranta minuti arriviamo vive e vegete a Baku. Sono di nuovo le due di notte, ma qui il bar è aperto. Senza vergogna, mi addormento sul divanetto mentre Alessia legge o scrive o fa altro. Dormo fino alle 7, quando ormai è giorno.
Ciao, sono Alessandra! Viaggio spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia. Amo viaggiare a Oriente e esplorare il Caucaso rimane una delle esperienze più stimolanti.
Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Arriviamo in centro dove c’è un sacco di gente. Vita, macchine, negozi, persone che vivono. Sembra di essere a Istanbul, ma un’Istanbul migliore: i palazzi in stile parigino ospitano caffè e pasticcerie al pianoterra , i balconi sono decorati da fiori e i soliti negozi che vendono patatine, bibite e sigarette sono del tutto simili a quelli turchi. Le vie salgono e scendono sulle colline, pacifiche fino a che non si intersecano con una strada principale trafficata dove la gente sfila in abiti d’ufficio.
Baku mi piace: è grande, moderna, pulita, la gente è rispettosa. È una città petrolifera costruita sulla desertica penisola di Absheron che si allunga nel Mar Caspio e negli ultimi trent’anni si è arricchita vertiginosamente grazie all’esportazione di gas e petrolio. Ha un raffinato centro storico dagli edifici color sabbia ma con l’aria da capitale europea grazie ai caffè e alla gente che appare libera, specie nel modo di vestire. Oltre, le periferie sono caotiche ma la maggior parte degli edifici residenziali sono eleganti, divisi tra loro da vicoli alberati. Il lungomare, invece, è il tripudio dell’ostentazione, come pure la via che porta all’aeroporto: boutique di stilisti famosi, hotel costosi tutti in vetro e alti grattacieli a forma di semicerchio. La sera, passeggiando sulla costa dove famiglie e gruppi di giovani si godono l’estate, ci fermiamo a osservare le Flame Towers, palazzi di vetro a forma di fiamma che si illuminano dei colori della bandiera o creano figure dinamiche di uomini che giocano a golf.
Posso dire con certezza che a Baku ho mangiato il pasto più buono non del viaggio, ma della mia intera vita. È stato in un ristorante georgiano in centro, il Megobari, e il cibo era meraviglioso, così buono da farmi venire le lacrime. È un peccato che la lingua sia carente di aggettivi per descrivere i sapori e gli odori, così quella cena rimarrà solo nei miei ricordi.
Alloggiamo nel centro storico in una sorta di ostello-forno dove rischiamo la morte per cottura. Conosciuta come Icherisheher, la città vecchia di Baku, patrimonio UNESCO, è un labirinto di stradine acciottolate, botteghe artigiane, mura difensive, moschee antiche e caravanserragli. Il Palazzo degli Shirvanshah è al contempo una fortezza con tanto di cisterna e mausoleo del Santo sufi Seyyid Yaxya Bakuri. Fu costruito nel XV secolo quando la dinastia degli Shirvanshah spostò la capitale dall’entroterra a Baku, che divenne un importante snodo sulla Via della Seta.
La Torre delle Vergini, Torre Devichya, ai limiti della città vecchia, sul lungomare, è il simbolo della Baku pre-islamica. Probabilmente si chiama “delle vergini” perché non è mai stata toccata dai nemici oppure perché durante gli attacchi dei turchi vi venivano rinchiuse fino a trecento vergini per proteggerle dai guerriglieri. La leggenda vuole che, durante un assedio, una ragazza dai capelli rossi fosse uscita da dalla torre in fiamme. Si offrì di sfidare il capo degli invasori alle porte di Baku a patto di potersi coprire con un elmo e battersi con la spada. Quando l'avversario, con la spada puntata alla gola della vergine, le chiese di rivelargli la sua identità, lei si scoprì i capelli e lui se ne innamorò. L’assedio finì e i due si sposarono per vivere per sempre felici e contenti.
Fuori della città vecchia abbiamo ammirato le meraviglie contemporanee di Baku. Le varie zone della città sono ben collegate dalla metropolitana: le fermate, come per tutte le capitali ex URSS, sono bellissime e sovieticissime, con i simboli di falce e martello, gli elogi agli astronauti e le decorazioni geometriche di marmo.
Lo Heydar Aliyev Center è un centro congressi e museo che esibisce i regali dei diplomatici all’ex presidente. La struttura ha ricevuto il premio “Design of the year” vinto per la prima volta da una donna, Zaha Hadid, di origine irachena. È un colosso bianco di vetro a forma di “onda continua”, molto sensuale, ed è stato paragonato a una sposa che si toglie il velo o alla gonna fluttuante di Marilyn Monroe.
Ancora più in là, circondata da prati verdi, sorge la moschea Heydar. Situata in posizione panoramica, è una delle più grandi del Caucaso. A discapito dalle apparenze, è stata inaugurata solo nel 2014; si distingue per l’eleganza della sua architettura in marmo bianco e per i quattro minareti. Oltre alla bellezza estetica, la moschea è simbolo di coesistenza: accoglie sia sunniti che sciiti, uniti in un unico spazio di preghiera.
L’ultimo giorno prima del rientro in Italia, mentre Alessia era in hangover nell’ostello-forno e nonostante il mal di testa e l’afa insopportabile, ho deciso di sfruttare le ultime ore in Azerbaijan per andare alla ricerca di un certo monumento. Con una lunga passeggiata ho raggiunto il memoriale alla spia sovietica Richard Sorge, nato in questa città nel 1895. Con poca modestia, ho poggiato il cellulare sulla borsetta a terra e mi sono fatta una foto come quella di Tiziano Terzani nel libro Buonanotte, Signor Lenin. Il primo anno di università, facoltà di lingue e culture dell’Asia, mio padre mi ha regalato “Un indovino mi disse” e da quel momento Terzani è diventato la mia ossessione. Negli anni ho letto tutti i suoi libri anche tre o quattro volte e andare a conoscere Sorge, che tanto aveva affascinato il giornalista nostrano, era diventato l’obiettivo numero uno della mia visita in Azerbaijan. Il monumento sorge in un incrocio di viali e attorno ad esso è stato istallato un piccolo parco di fronde fruscianti la cui ombra dà un momento di sollievo nella calura caucasica. Al centro sorge una grande lastra di bronzo dove due occhi incavati guardano torvi i passanti. Tre buchi simili a colpi di proiettile sono stati scavati nella lastra, anche se Sorge fu impiccato, non fucilato, nel 1944 in Giappone. Nacque a Baku, appunto, da madre russa e padre tedesco. Ufficialmente faceva parte del Partito Nazista e lavorava in Asia come giornalista per il Frankfurter Zeitung, ma in realtà era fedele alla Rivoluzione e all’Unione Sovietica. Era a Shanghai quando i nazionalisti di Chiang Kai-shek uccidevano i comunisti di Mao TseDong e si pensa che abbia salvato la vita di quest’ultimo grazie a una soffiata in cui affermava che i nazionalisti avrebbero attaccato gli avversari.
Poco dopo si trasferì a Tokyo, dove strinse una bella amicizia con l’ambasciatore hitleriano in Giappone mentre lavorava per il giornale nazista. Fu così che riuscì a passare moltissime informazioni ai Sovietici, come per esempio la data della marcia tedesca su Mosca o l’idea dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, anziché all’URSS in Siberia e nelle isole Sakhalin. Stalin non credette a una parola di ciò che Richard Sorge gli comunicava; al contrario, i giapponesi scoprirono che quando si allontanava in barca con la scusa di pescare, in realtà inviava messaggi via radio a Mosca. Lo arrestarono nel ’41 e lo impiccarono nel novembre di tre anni dopo, dopo interrogatori e torture. Per anni dopo la sua morte continuarono a circolare miti e storie su Sorge e l’URSS convinse la sua amante giapponese a donare all’Impero parte delle ceneri della spia, per riabilitarne la memoria e creare un eroe-simbolo. Un altro grande spreco dell’Unione Sovietica, uno che però spicca per l’intelligenza, l’intraprendenza e gli ideali, al contrario di milioni di persone anonime sacrificate in nome di un ideale fallimentare.
Ritorno in ostello per vedere se Alessia è ancora viva, metterla su un taxi e portarla in una casa di campagna non lontano dall’aeroporto, dove, al tramonto, con il fresco, resuscita. La sera precedente avevamo dimesso i panni da turiste per confonderci con i locals. Dopo cinque settimane di viaggio avevamo deciso di darci una sistemata prima di rientrare in Italia e così eravamo andate a farci fare manicure e pedicure: di primo acchito è sicuramente una cosa frivola, ma si è rivelato essere un modo per entrare in contatto con chi il Paese lo vive. L’estetista, alquanto amareggiata per la situazione odierna, ci ha raccontato di quanto fossero belli i tempi sotto l’Unione Sovietica.
“Avevamo tutto, tutto. Stavamo bene, eravamo in salute, non ci mancava nulla. Per strada c’erano i distributori di bibite e acqua. Usavamo tutti lo stesso bicchiere di vetro e non si ammalava nessuno.” Poi ha iniziato a prendersela con gli occidentali, questa massa sconosciuta che non fa che creare problemi al mondo intero.
“Ora il nostro stipendio è di 300 euro al mese, non posso neanche permettermi di andare a trovare mia figlia e i miei nipoti a Istanbul. L’Azerbaijan è ricco, ma noi siamo poveri, è colpa di voi cristiani che comprate le nostre risorse e a noi non rimane niente, solo ai piani alti sono ricchi.”
Ho provato invano a spiegarle che la religione non c’entra nulla, che i colpevoli sono i governi, in primis il loro che con il flusso continuo di petrolio e gas verso l’Europa, specie verso l’Italia, si compra il silenzio dell’Occidente sulla guerra in Nagorno-Karabakh. È stata una battaglia persa in partenza, non solo lei è sicura che il decadimento sia colpa dei cristiani, ma il mio russo non è abbastanza buono per difendere una tesi.
“La Russia ci compra il petrolio a 5, per dire, e lo rivende a voi per 8. Prima eravamo tutti fratelli e non c’erano differenze tra cristiani, musulmani ed ebrei, poi è arrivato Cristo, si è fatto crocifiggere, ha diviso tutti e ha preteso di essere adorato.” Mi sembra più il ritratto di Stalin, che di Cristo, ma vabbè.
“E Maometto?” le ho chiesto.
“Lui predica la fratellanza dei popoli. Siamo tutti fratelli. Non ho ragione, eh? Non ho ragione? Non c’è differenza tra gli esseri umani, è questo quello che dice il Profeta.”
“Non fa una piega”, rispondo. (Non è vero, non so dire “non fa una piega in russo. Ho detto “kanieshna, certamente.”)
L’estetista non brillava d’intelligenza, ma se questa è la propaganda che rifilano al popolo azero, io mi spaventerei.
Secondo la Lonely Planet, la vita notturna di Baku è tra le top dieci del mondo. Viaggiando così a lungo con solo uno zaino, di certo non potevamo essere splendide come le ragazze azere, ma abbiamo fatto del nostro meglio indossando il vestitino meno spiegazzato che avessimo. Invece delle converse o delle scarpe da ginnastica mi sono messa un paio di sandali pagati tre euro che si sono rotti nel bel mezzo delle danze e che ho dovuto sistemare con un elastico per capelli. Il centro storico di Baku è pieno di giovani in tiro e di locali dove suonano musica di ogni tipo. Le ragazze sono bellissime; gli uomini, sempre a due a due e con un gomito poggiato fuori dal finestrino e il cipiglio da cacciatore, tagliano la ressa con macchine tirate a lucido e la musica a tutto volume. Vanno pianissimo per farsi spazio nella folla che si gode la notte. Si possono trascorrere le ore spostandosi da un locale all’altro e vedere tutta la varietà che offre Baku. I prezzi sono la metà rispetto a Venezia, non che io abbia speso molto, comunque, visto che gli uomini – eredità dell’Unione Sovietica – si sentono in dovere di pagare da bere a qualsiasi donzella, anche a quelle con le ciabatte rotte. Tra le varie persone coinvolte nel business del petrolio che ci hanno offerto un drink, abbiamo conosciuto due soldati israeliani. Ed ecco che anche un venerdì sera si trasforma in politica. Non sono in vacanza, sono proprio in servizio. I loro approcci mi turbavano non poco e gliel’ho fatto presente.
“Io i bambini di Gaza li ho salvati quando Hamas li usava come scudo. Guarda” si tira su la manica della camicia a righe sull’avambraccio muscoloso e dalle forme perfette per mostrarmi delle ferite cicatrizzate. Mi mette in soggezione.“Queste me le ha fatte Hamas”, dice. “Mi hanno sparato contro mentre cercavo di salvare dei bambini.”
Chissà.
“E cosa ci fate qua?”
“Aiutiamo la gente a ricostruire le vie, i villaggi. Cose così insomma.”
Al contrario, è noto che la maggior parte delle basi militari israeliane in Azerbaijan sono sul confine con l’Iran. Solo un paio di mesi prima, tra l’altro, il presidente iraniano Ebrahim Raisi era deceduto in un incidente in elicottero mentre visitava l’Azerbaijan Orientale, regione persiana. È stato un incidente, dicono. Vorrei tanto tornare dall’estetista e dirle: “Che ne pensi? Israeliani ebrei, azeri musulmani e occidentali “cristiani” stanno creando un asse sempre più stretto contro gli iraniani sciiti, i palestinesi sunniti e i russi ortodossi. Ha senso?” Invece non posso, non avrebbe senso dirle nulla. Sorseggio il mio drink in quella calda notte caucasica, sulle sponde del Mar Caspio. Intorno a me, gente di tutti i tipi, di tutti i colori, di tutti i credi, fa lo stesso, balla, chiacchiera, senza differenza di religione o di nazionalità, mentre lì fuori il mondo si spacca sempre più in profondità.
Della scrittura di viaggio
Della scrittura di viaggio non è una guida come le altre.
È un mini-compendio pratico e incisivo, pensato per chi ama viaggiare con occhi curiosi e penna alla mano.
Oggi troppi blog e riviste trasformano le destinazioni in semplici liste di cose da vedere, dimenticando che ogni luogo ha un’anima: storie millenarie, persone reali, eventi storici, influenze culturali.
Se cerchi un manuale per creare itinerari preconfezionati, questo non fa per te.
Ma se per te viaggiare significa capire, ascoltare, immergerti in un altrove… allora sei nel posto giusto.
Vuoi dare voce ai luoghi? Far vivere le emozioni, i colori e i suoni che hai vissuto?
Questo manuale ti mostra come farlo, passo dopo passo.
📚 All’interno troverai:
15 esercizi pratici ispirati alla migliore letteratura di viaggio
Esempi reali dopo ogni esercizio, per passare subito dalla teoria alla pratica
3 appendici narrative, tratte dal mondo della scrittura creativa, per affinare il tuo stile e rendere i tuoi racconti vivi, autentici e coinvolgenti
"Della scrittura di viaggio" è per chi non vuole solo scrivere di viaggi, ma farli rivivere.
Leggi anche…
Soldati caduti e more ai lati delle vie - Sheki, Azerbaijian
Azerbaijan, la terra del fuoco. Ha un suono cattivo, o forse è solo una percezione. Un paesino stretto tra i monti del Caucaso e il Mar Caspio che fa strage di armeni mentre il suo oro nero scorre dritto dritto nelle casse europee.
Solo per animi squinternati
Girovagare per la Georgia nel 2022 fa comprendere tutta la tragicità che la Russia ha portato ai deboli Paesi un tempo a lei dipendenti. Sia l’Ucraina che la Georgia fecero parte dell’impero zarista prima, dell’Unione Sovietica poi e oggi condividono una storia di invasioni, uccisioni e il forte desiderio di aderire all’Unione Europea.
Fatalismo, l'ingrediente segreto del Caucaso
Sull’autostrada che da Gori porta alla capitale, le macchine si superano e si incastrano come nel gioco del Tetris, ma a 140 km orari e con una logica sconosciuta a un non caucasico. Scivolano da destra a sinistra senza frecce, superando di qua e di là, come ne hanno voglia, inserendosi miracolosamente negli spazi vuoti tra un veicolo e l’altro. Il nost…