“Dievushka, u vas iest kniga?” “Ragazza, hai un libro?” Mi chiede allarmata la guardia doganale dopo aver fatto passare lo zaino nei raggi X. Che domanda è?
“Da” rispondo, cercando di ricordare se Tiziano Terzani fosse stato bannato anche da lì. Faccio per tirare fuori il libro dal mio zaino blu, ormai lercio di tutto lo sporco delle strade kirghise.
“È il Corano?” mi chiede ancora la guida.
“No.” Faccio per allungargli Buonanotte, Signor Lenin ma l’uomo non lo degna di un’occhiata. Forse una donna sola, in maglietta e pantaloncini, sudata e impolverata, non sembra una fervente musulmana.
“Allora vai pure. Benvenuta in Kazakhstan”.
Ciao, sono Alessandra e sono andata fino in Kazakhstan per mangiare una mela.
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Almaty, la New York delle Steppe
Almaty, o Alma-Ata, il “nonno delle mele”, la vecchia capitale del nono paese più grande al mondo, un paese immenso, piatto, ricoperto quasi del tutto da steppe e senza sbocchi sul mare. Qui l’Unione Sovietica si è sbizzarrita, decimando i nomadi kazaki per fame, facendo evaporare il quarto lago più grande del mondo e inquinando una buona porzione del territorio a nord-est con i test nucleari – attività che va avanti tutt’ora sotto i russi.
Almaty, la città più cosmopolita dell’Asia Centrale, la New York delle steppe e, come la Grande Mela, anche “il nonno delle mele” non dorme mai. Quando siamo arrivate dalla capitale del Kirghizistan, Bishkek, erano le 23 e siamo rimaste imbottigliate nel traffico. Ci è voluta un’ora per arrivare al capolinea. Poi, nel tragitto a piedi per l’ostello siamo passate tra allegre famigliole con bambini a passeggio e negozi di fiori e peluche nel pieno della loro attività. Ristoranti, alimentari, tutto era aperto, ma noi siamo andate filate a dormire, stanche e impolverate per il lunghissimo viaggio da Karakol a lì.
Sebbene Karakol disti solo 155 km in linea d’aria da Almaty, non esiste una strada diretta percorribile attraverso i monti Ile-Alatau, che separano i due Paesi. Dalla stazione dei bus (avtovokzal) di Karakol, abbiamo preso una marshrutka per Bishkek al costo di 500 som (meno di 5,5 euro). Sorprendentemente, il veicolo era comodo, pulito e, una volta tanto, anche nuovo. Arrivati alla stazione ovest della capitale (Zapadny avtovokzal in russo), abbiamo atteso tre ore il bus 701 diretto ad Almaty. Il prezzo del biglietto è di 600 som (circa 6,40 euro). Sono disponibili anche taxi condivisi a 1500 som (poco più di 16 euro) a persona, ma non avevamo abbastanza contanti kirghisi e, alla stazione dei bus, non c’è un bancomat – una nota importante per chi voglia intraprendere lo stesso tragitto. Sono presenti, però, punti di cambio-valuta. L'attesa non è stata un problema, poiché la stazione offre un paio di squallidi ristorantini, dove però non si mangia male.
Il bus per l’ex capitale kazaka – un vero autobus, non una marshrutka – era un ferrovecchio di una qualche azienda cosentina. “Chiappetta, Italia” c’era scritto sulla portiera. Pareva che avesse svariati decenni, ma ha fatto il suo dovere e ci ha condotte al confine, dove bisogna ricordarsi di prendere tutti gli effetti personali perché, dopo il controllo doganale, il bus torna indietro e un altro, sempre numero 701, carica i passeggeri dalla pompa della benzina. Non serve fare un altro biglietto, il primo è valido per entrambi i bus.
Il viaggio dalla dogana di Korday ad Almaty, è di circa 200 km, che però tra pause, traffico e mezz’ora di attesa per un viaggiatore ritardatario è durato sei ore e mezza. Oltre il finestrino, si stendono verso l’orizzonte colline ondulate, vuote di ogni forma di vita che non sia erba. Solo oscurità e nulla, fino a che, all’improvviso, si scorgono le luci dell’ex capitale sorta sulla vuota pianura.
La metropoli giardino
Almaty è una città meravigliosa nel cuore dell’Asia Centrale. A oggi conta più di due milioni di abitanti e fino al 1997 era la capitale del Kazakhstan, prima che lo scettro passasse ad Astana o Nur-Sultan, come si è chiamata per un periodo in onore dell’ex presidente. Ora Almaty è il polo finanziario del paese, giovanile e vibrante. La gente ama uscire e rilassarsi, al contrario di Astana, dove nei giorni lavorativi i locali sono vuoti e la gente non sorride mai, lì a nord, al confine con la Siberia. Questo lo dice Yersultan, che è originario di lì e si è trasferito ad Almaty da sole due settimane. È scioccato dai bar pieni a qualsiasi ora, dagli artisti di strada, dai musicisti, dall’anziano veterano che canta in italiano per noi e ci predice il futuro in cambio di qualche moneta. C’è un’aria quasi mediterranea di festa e rilassatezza.
Nonostante sia metà luglio, un’arietta fresca spira dai monti Ile-Alatau, parte delle Montagna del Cielo, che incombono sulla città con le loro vette scoscese e le cime incappucciate di neve. Alcuni picchi, al confine con la Cina a est e il Kirghizistan a Sud, raggiungono i 7000 metri d’altezza. La zona centrale di Almaty è un vero e proprio giardino: i viali sono tutti alberati, affiancati da due o tre filari di querce, in alcuni punti anche quattro, e i pioppi sono così fitti che sembra di stare in un bosco anziché in una metropoli. Insieme ai monti, contribuiscono a dare freschezza e aria pulita nonostante il traffico e i soliti palazzoni di calcestruzzo, marmo e cemento. I condomini popolari costruiti in blocco non danno quel senso d’angoscia che si ritrova nelle città ex-sovietiche, così nascosti tra le fronde, e persino gli edifici brutalisti – come l’hotel Kazakhstan, un mostro di cemento sormontato da una corona d’acciaio – appaiono piacevoli. Qui e lì si incontrano edifici stalinisti con la loro eleganza e i colori pastello, come l’Opera e l’Istituto di Scienze (che purtroppo stanno rinnovando e non è visitabile al momento) La città è inoltre abbellita da fontane e gorgoglianti canaletti di scolo, monumenti ai valorosi eroi dell’Unione Sovietica e placche sulle case del tale professore, intellettuale o veterano.
La periferia, invece, è la Cina. Per un attimo ci è sembrato di essere tornate a Shanghai, con gli alti grattacieli di specchi e cemento ospitanti centinaia e centinaia di persone che svettano verso il cielo nella loro aridità moderna e autoritaristica. Al lato delle vie si susseguono negozi che vendono di tutto: frutta, fili, sassi, spezie, in un caos che ci ricorda che, nonostante tutto, siamo in Asia, mentre la coloratissima cattedrale di legno riverniciato con le sue cupole dorate, uno dei pochi edifici sopravvissuti al terremoto del 1911, ha quel forte sapore d’Europa dell’Est. All’interno ci si copre il capo e si possono baciare le icone con i santi barbuti dagli abiti d’argento o accendere una sottile candela color miele, rituale ortodosso che abbiamo fatto nostro nei viaggi a Oriente.
Non lontano, i virilissimi monumenti ai Ventotto Eroi commemorano il platone kazako che nel 1941 combatté contro i nazisti alle porte di Mosca. Nerboruti militari si staccano dall’acciaio con i loro muscoli taurini e l’espressione spavalda, le iscrizioni alla gloria degli eroi sovietici circondano la fiamma eterna accesa in onore dei caduti: i loro nomi sono lì, non lontano da una grande stella socialista mai rimossa dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Il Kazakhstan e il fondamentalismo islamico
“Il governo ha paura dei fondamentalisti. È per questo che alla dogana ti hanno chiesto se avessi il Corano” mi dice Yerrsultan. Ci siamo conosciuti l’anno prima ad Antalya, in Turchia, e ora si è appena trasferito da Astana, sua città natale, ad Almaty e se ne è innamorato, proprio come me e Alessia. “I fondamentalisti prendono i ragazzi più svantaggiati e li convincono che, unendosi a loro, migliorerebbero la propria situazione. Poi, quando arrivano per esempio in Siria o in qualche altro paese mediorientale dove vengono arruolati con l’inganno, si rendono conto di essere caduti in una trappola. Il nostro governo ne ha già riscattati tanti ed è per questo che stanno molto attenti.”
Io e Sultan abbiamo passato qualche mese estivo a berci birrette sul lungo mare di Antalya, sulla costa meridionale turca, che pullula di ucraini scappati dalla guerra, russi fuggiti dall’arruolamento forzato e centrasiatici in cerca di fortuna. Ora, dopo un viaggio alla Mecca, non beve più. È credente, ma aborre i fondamentalisti. Prende in giro le loro rade barbe asiatiche, così ridicole rispetto a quelle arabe, lunghe e folte. “Una volta recuperati, il governo li mette a vivere tutti insieme in un villaggio separato dal mondo per evitare che diffondano le loro idee.” Il Kazakhstan è un paese laico anche se la maggioranza si professa musulmana. Alcune donne indossano il velo ma non sono molte e in generale i caffè sono frequentati soprattutto da gruppi di ragazze in abiti succinti e dall’aria disinvolta.
Sultan ci porta ad Arbat, il quartiere della movida, e chiacchieriamo fino a tardi al bar Kino, chiamato come la band di Viktor Zoy, il Kurt Kobain dell’Unione Sovietica. Non lontano c’è una statua che lo ritrae ad altezza naturale.
La zona è piena di bar, club e ristoranti come in una qualsiasi capitale europea. Si beve all’aperto, in bella vista, e le ragazze indossano corti vestitini smanicati. Difficile dire di essere in un paese musulmano.
Le mele di Almaty
Il giorno dopo Sultan ha portato me e Alessia a mangiare cibo tradizionale kazako: il beshbarmak, tagliolini con un po’ di brodo e carne di cavallo (si trova anche con il manzo e il montone); kuurdak, carne di agnello fritta con le interiora e le patate; e un’italianissima insalata di pomodori, rucola e burrata, giusto per rinfrescarsi. “Burrata kazaka” commento e chissà perché questo fa scoppiare a ridere il già molto ridanciano Sultan. La salsiccia di cavallo, provata quella mattina al Bazaar Verde (Zeleny Bazar), è grassa e saporita. All’esterno dal bazaar, un must di tutte le città centrasiatiche, c’è il trionfo del Made in Cina, proprio come a Bishkek. Dentro, invece, le bancarelle espongono montagne colorate di spezie, frutta secca, frutta fresca, prodotti caseari, salsicce e carne di ogni tipo. La zona macelleria è asettica e non diffonde il suo tanfo di morte come nell’Osh Bazaar di Bishkek, dove non sono neanche riuscita ad entrare. Al Bazaar Verde non potevo non assaggiare una delle famose mele di Almaty, succosa e saporita, per niente “noiosa” come considero di solito le mele.
Il botanico sovietico Nikolaj Vavilov, la cui missione era di girare il mondo per scoprire nuovi tipi di piante, scriveva di Almaty, o Alma-Ata: “Vasti campi di meli selvatici si stendono in ogni direzione intorno alla città e ammantano i rilievi formando grandi boschi. Diversamente dalle piccole mele selvatiche che crescono sui monti del Caucaso a ovest, quelle selvatiche del Kazakhstan sono per lo più grandi, e la loro qualità non è da meno di quella dei frutti coltivati. Il primo settembre, intorno al periodo in cui le mele erano quasi mature, si poteva vedere con i propri occhi che questa terra bellissima era il luogo d’origine delle mele.”1
Il suo ambizioso progetto era quello di creare coltivazioni nuove e resistenti per debellare la fame, incrociando le varianti genetiche più robuste delle piante commestibili, poiché credeva che quelle selvatiche avessero delle proprietà perse nelle varianti coltivate. Combinandole, avrebbe creato delle “super piante” che sarebbero sopravvissute al gelo invernale e al calore estivo.
Erika Fatland, nel libro “Sovietistan”, descrive Vavilov così: “La caccia delle piante spinse Vavilov da un angolo all’altro dell’Unione Sovietica, e in Giappone, Cina e Corea, negli USA e in Canada fino a sperduti valichi montani dell’Afghanista, al Sahara e all’Etiopia, dove i predoni tentarono di rapinarlo. Viaggiava sempre vestito in modo impeccabile, con un abito scuro e sartoriale, cambia bianca e cravatta, e il suo buonumore e la sua inesauribile energia gli guadagnavano amici ovunque giungesse.”2
Durante questi viaggi, raccolse così tanti semi che iniziò a conservarli nella prima banca dei semi al mondo a Leningrado. Divenne uno dei biologi più famosi, fu nominato membro dell’Accademia delle scienze e insignito del premio Lenin, il più prestigioso dell’Unione Sovietica. Vladimir Lenin stesso lo stimava, fino a che morì, nel 1924 e Stalin iniziò a fargli ostrazionismo per favorire il botanico Trofim Lysenko, secondo il quale le piante trasmettevano le caratteristiche acquisite ai discendenti, teorie già confutate in Europa ma che furono la base della politica agricola stalinista. Insieme a tanti altri fattori, anche queste teorie erronee contribuirono alle devastanti carestie degli anni Trenta.
Nel frattempo Nikolaj Vavilov, durante un viaggio in Ucraina nel 1940, venne arrestato e condannato a morte, pena poi commutata in vent’anni di reclusione: tuttavia, ironicamente morì tre anni dopo in carcere di denutrizione. Il suo tesoro, la banca dei semi, gli sopravvisse grazie alla tenacia dei collaboratori durante i ventotto mesi dell’assedio di Leningrado: i dipendenti trasferirono una scelta dei semi in cantina, in una cassa, senza lasciarla mai incustodita. Nove di loro morirono di fame durante l’assedio, ma nessuno toccò i semi.
Vavilov tornò nel Pantheon degli scienziati dell’Unione Sovietica solo alla morte del dittatore e la pena fu revocata in via postuma.
Christopher Robbins, In Search of Kazakhstan. The Land that Disappeared, London, Profile Books Ltd, 2008. Traduzione italiana di Eva Kampmann.
Erika Fatland, Sovietistan, Un viaggio in Asia Centrale, Venezia, Marsilio, 2019.
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