1.
Prima e dopo un viaggio, amici e conoscenti sono soliti chiedermi “ma perché avete deciso di andare in quei posti?” o “ma come scegliete i luoghi da visitare?” e non so mai come rispondere. La verità è che mi basta un nome, una storia origliata, un’evocazione per spingermi ad approfondire. E poi, pagina dopo pagina, avventura dopo avventura, mi ritrovo a sognare di essere lì, per capire, per analizzare, per digerire.
Ciao, sono Alessandra. Viaggio a tempo pieno e scrivo di viaggi lenti. Iscriviti gratuitamente per goderti i miei post da leggere con calma, prendendosi del tempo per se stessi in questo mondo frenetico.
Da inizio anno, da quando per qualche motivo sconosciuto a me stessa ho proposto alla mia amica Alessia di andare in Asia Centrale, mi sono dedicata allo studio degli “Stan”. Non che in sei mesi uno possa imparare la storia e la politica di una regione tanto complessa, una regione per la quale è passato chiunque, ma proprio chiunque, portando per lasciare e prendendo per diffondere. Se uno dovesse riassumere l’Asia Centrale in poche parole, ne verrebbe fuori qualcosa del genere: popoli che invadono e distruggono, altri che si stanziano e ricostruiscono, fiorire delle scienze e delle arti e poi ancora invasioni e distruzioni. Non dobbiamo pensare che a noi europei, genti stanziali al margine del mondo, questi eventi millenari non tocchino. Al contrario: senza l’Asia Centrale, l’Europa non esisterebbe. È tramite quelle rotte di viaggiatori e carovanieri che i due poli dell’Eurasia hanno comunicato, scambiandosi informazioni e tecnologie per lo sviluppo di entrambi. La Cina, dopotutto, non era così lontana neanche prima dell’invenzione dell’aereo.
Saranno state le magiche parole “la via della seta” a evocare altopiani polverosi da percorrere con lentezza, o quelle “orda d’oro” per andare a vedere come Gengis Khan avesse distrutto tutto, ma proprio tutto, tranne la Torre di Bukhara che lo impressionò con la sua altezza, per lasciare invece che il seme suo e dei suoi combattenti stampassero un paio di occhi a mandorla sui visi delle steppe.
Venezia è tappezzata da manifesti che ricordano il settecentesimo anniversario dalla morte di Marco Polo. Molto meno romanticamente, io e Alessia siamo partite dalla città lagunare in aereo e, dopo l’immancabile scalo a Istanbul – varco tra Occidente e Oriente sotto l’elegante forma del Bosforo – in poche ore siamo atterrate a Bishkek, rendendo vane, grazie alla tecnologia moderna, le infinite traversate di migliaia di carovane nel corso dei millenni. Fai scorrere il passaporto biometrico sul lettore, “bip-bip”, tieni la testa ferma ché serve una foto, un timbro sulla pagina del documento e sei in Kirghizistan, una remotissima terra che pure fu uno dei nodi nevralgici delle vie della seta.
2.
La città utopia, Bishkek
In aeroporto – sì, già nella hall degli arrivi – visi mongoli ti assalgono per convincerti a noleggiare un taxi che ti porti direttamente in città per l’equivalente di dieci euro. Hanno tratti simili a quelli cinesi ma parlano in russo, cosa che ci ha sempre disorientate un po’ e ad Alessia è scappato qualche xiè xiè sinitico.
In ogni caso, abbiamo declinato le insistenti offerte. Se si preferisce entrare subito in contatto con la cultura centrasiatica, è bene prendere mezzi di trasporto locali: le mitiche marshrutke, i minivan sovietici che ricoprono il mondo dall’Ucraina al Kirghizistan, dalla Siberia all’Azerbaijan. Inoltre, una corsa fino in città costa solo 70 centesimi di euro. Quando si viaggia per cinque settimane conviene fare un po’ di economia.
Per arrivare a Bishkek si attraversa dapprima la campagna, seguita da una periferia di basse case nascoste da giardinetti. Vacche e capre passeggiano indisturbate ai lati delle vie polverose. La marshrutka ci deposita da qualche parte nel nord-ovest della città, a un’estremità di via Chuy, la strada principale che taglia la capitale da est a ovest.
Scendendo, poggiamo i piedi nel regno del brutalismo sovietico. Siamo nella “città utopia” voluta dai comunisti e, con mia somma felicità, quasi tutti i cimeli del regime sono rimasti intatti, a differenza della maggior parte degli ex paesi URSS, dove dopo la caduta dell’impero si è cercato di dimenticare 80 anni di storia. Oltre ai pioppi che affiancano via Chuy (e quasi tutte le strade della città), si stagliano meraviglie sovietiche, come il cinema “Russia”, un casermone di cemento sovrastato da sei enormi lettere cirilliche.
Bishkek è una città-parco. Da cittadina secondaria fu trasformata in una città vera e propria, Pishpek, sotto i russi. Durante l’Unione sovietica fu ricostruita secondo un’idea utopica: Bishkek, o Frunze come venne chiamata in onore di Michail Frunze, doveva essere la città ideale. Si può percorrere tutto il centro urbano all’ombra dei pioppi e dei salici che stormiscono nella brezza; tra i marciapiedi e le corsie, in piccoli canali di scolo, scorre l’acqua dalle cime delle Montagne del Cielo. “Il suono dell’Asia Centrale in estate”, dice Tiziano Terzani in "Buonanotte, Signor Lenin. Nei parchi la gente passeggia rilassata tra le statue di Marx ed Engels e degli eroi kirghisi. Un’effige di Stalin qui, una stella rossa lì, falce e martello sugli obelischi e sulle cancellate. Ala-too, la piazza principale, sarebbe un’enorme distesa di calcestruzzo, creata dal regime per le parate sotto la statua di Lenin. Ora, i cantieri riempiono quello spazio vuoto incline alle rivolte, per esempio quelle dei tulipani nel 2005.
Proteste e tulipani
Erano anni che il debito con l’estero, specie con la Russia, cresceva, tanto da superare a un certo punto il prodotto interno lordo. L’inflazione saliva ma gli stipendi rimanevano uguali. Così, quando nel 2005, il presidente Askar Akaev tentò di modificare la costituzione per farsi rieleggere per il quarto mandato, la popolazione infuriata indisse delle manifestazioni e si introdusse nel palazzo presidenziale e negli uffici governatici. Akaev ottenne l’asilo politico a Mosca. Sulla falsariga della Rivoluzione delle arance nel 2004 in Ucraina e su quella delle rose del 2003 in Georgia, i movimenti kirghisi vennero ribattezzati “dei tulipani”, complice il fatto che questi bei fiori fioriscono in tutto il paese in primavera.
In seguito si scoprì l’enorme corruzione del regime di Akaev, dove un seggio in Parlamento costava 3000 dollari mentre la carica di ambasciatore in Europa circa 10.000). Il successore Kurmanbek Bakiev non fu da meno, tra uccisioni di rivali politici e giornalisti e l’incremento della corruzione. Cinque anni dopo, il carovita era raddoppiato e vari oppositori politici furono arrestati: il popolo, ancora una volta, si rivoltò il 7 aprile del 2010. Negli scontri morirono 87 manifestanti, evento che condannò all’ergastolo Bakiev e suo fratello, i quali ripararono in Bielorussia. Dei cinque “Stan” sovietici, il Kirghizistan è stato l’unico paese a rovesciare il governo in carica non una ma ben due volte, cosa che fece introdurre la Repubblica Parlamentare e distinguere la politica del piccolo paesino montagnoso dai suoi vicini. Si concorda sul fatto che sia anche uno dei paesi più poveri e che questo sia il motivo che ha spinto la popolazione a rivoltarsi: il Kazakhstan e il Turkmenistan hanno grandi risorse di petrolio; quest’ultimo, inoltre, insieme all’Uzbekistan è un paese molto repressivo. L’altro paese povero, il Tajikistan, da sempre scosso da violenze ed estremismi islamici, preferisce sottomettersi a un governo corrotto pur di avere una parvenza di stabilità.
La guerra del simbolismo
Piazza Ala-too è il luogo perfetto per le rivolte e il nuovo governo ha deciso di limitarne gli spazi. Al centro, dove un tempo il padre dell’Unione Sovietica indicava la via dall’alto del suo piedistallo, troneggia Manas, eroe epico dei popoli nomadi turchi. Nella disperata ricerca della propria identità nazionale fomentata dalle politiche sovietiche prima e dalle disgregazioni di queste ultime poi, i popoli dell’Asia Centrale hanno assunto a simbolo di se stessi un personaggio storico. A Bishkek tutto ruota intorno alla figura di Manas, dalle statue alle vie. Gli è stato intitolato persino l’aeroporto internazionale. “Perché non studiate la letteratura kirghisa? È bellissima” ci esorta un tassita. L’epopea del Manas è un poema epico di circa mezzo milione di versi, oltre venti volte il numero di quelli che compongono l’Iliade e l’Odissea, e veniva recitato oralmente dai bardi che si spostavano di pascolo in pascolo, di yurta in yurta, allientando le sere sugli altipiani.
La statua equestre del mitico eroe kirghiso domina il cuore della città, felice di aver spodestato Erkindik, a sua volta messa a sostituire il padre della rivoluzione, che ora è stato relegato in un punto più discreto dietro al museo di storia. Nonostante il piedistallo di 17 metri piantato nel mezzo del nulla di piazza Ala-too, Manas non potrà mai gareggiare con l’emozione che provoca Lenin.
Di statue di Vladimir Il’ič, in foto, se ne vedono a bizzeffe. Popolavano mezza Eurasia e sono state quasi tutte abbatute dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Essendo io nata proprio nell’anno di quest’ultima, fatta eccezione per le foto e il museo-cimitero di Sofia, non avevo mai visto un Lenin così da vicino. Oltre l’ideologia, oltre il personaggio – si parla di un impero morto, possiamo lasciar correre i discorsi politici – vedere quel memento storico colpisce nel cuore. Sapere che quell’uomo lì, nel suo cappotto lungo e con la mano tesa a indicare la giusta via, aveva sottomesso un territorio immenso che va dallo stretto di Bering alle porte di casa nostra, che aveva unito popoli totalmente diversi sotto un unico ideale – forzando un po’ la mano – e che aveva regalato sogni di giustizia e di ferro a milioni e milioni di persone, che ha creato uno spauracchio per l’Occidente, ecco, in quel momento preciso mi sono sentita trascinata indietro nel tempo, con un grande rispetto nei confronti della storia e anche un senso di vuoto nel sapere, cento anni dopo, quante vite sarebbero state sprecate nella corsa all’ideale dell’uomo giusto.
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Grazie per avermi riportato a Bishkek! Mi manca molto! E anche per me la statua di Lenin a Bishkek è stata la prima che ho visto da vicino.
Grazie per questo articolo su un pezzo di mondo di cui si parla poco (e in cui vorrei tanto viaggiare, prima o poi).