Sono seduta sulla sabbia sotto un cielo plumbeo, sulla riva dell’Issyk Kul, uno dei laghi alpini più antichi e più profondi del mondo. Le vette innevate sull’altra sponda sono scomparse sotto la coltre di nuvole; quelle alle mie spalle, più vicine, fanno sfoggio dei loro vasti ghiacciai.
Ciao, sono Alessandra. Viaggio a tempo pieno e scrivo di viaggi lenti. Iscriviti gratuitamente per goderti i miei post da leggere con calma, prendendosi del tempo per se stessi in questo mondo frenetico.
I villeggianti, soprattutto russi e kazaki, sono spariti dopo il temporale di ieri. L’ennesimo, da quando siamo qui. Sono rimasti solo i pescatori del luogo e noi due, un po’ infreddolite nonostante sia luglio. In fondo, siamo a quota 1600.
Alessia legge, io scrivo, anche se di quando in quando mi fermo a scrutare l’altra riva a circa 60 chilometri.
L’Issyk Kul, il “mare caldo” poiché non ghiaccia mai a causa della sua salinità, occupa buona parte del territorio nord orientale del Kirghizistan, incastonato nel Tian Shan, le “montagne celesti” che dividono il paesino centro asiatico dalla Cina.
Non mi sembra vero di essere così vicina al Regno del Centro, come i cinesi chiamano la loro patria. Mi viene quasi voglia di andarci, di superare il passo di Torugart a 3600 metri d’altitudine e di perdermi nei mercati della mitica Kashgar, dalle quale si diramavano le tante vie della seta. Kashgar, solo il nome mi fa immaginare carovane, cammelli, mercanti impolverati e spezie, tessuti e carne essiccata.
Invece fra qualche giorno vireremo a nord-ovest verso Almaty, circumnavigando il lago Issyk-Kul prima di addentare le famose mele del sud del Kazakistan e di inoltrarci nelle steppe.
Amata e odiata Cina, sarà per un’altra volta! Ora è il momento del mormorio delle acque lacustri e del fischio dei merli, delle strette vie di macadam piene di buche sulle quali le marshrutke sobbalzano e noi prendiamo testate; è il momento di attraversare praterie in quota e di sfiorare i ghiacci con una Volkswagen così scassata che la portiera del guidatore si apre a ogni curva; è il momento del latte fermentato di giumenta dei nomadi che montano le loro yurte sugli altipiani fino alle prime nevi e lì, senza internet, senza segnale, fanno pascolare il bestiame e cantano e suonano il komuz bevendo arak - vodka locale - di prima mattina.
È il momento di fare trekking nelle gole del Tian Shan sperando di scorgere l’elusivo leopardo delle nevi e di andare alla ricerca di mementi sovietici tra i viali alberati di Biškek, dove pioppi e salici frusciano nei tanti parchi della città-utopia e i ruscelli provenienti dai vicini ghiacciai provano, invano, a sovrastare il frastuono del traffico.
È il momento di perdersi per le vie di Karakol alla ricerca di case bianche-rosso-blu e di chiese lignee circondate da roseti, dalle quali donne slave escono con un fazzoletto in testa, oppure di moschee colorate e con le tegole verdi e le punte dei tetti all’insù proprio come i templi cinesi, costruite dai Dungan fuggiti dall’impero Qing all’impero zarista prima, e dall’Unione Sovietica al regime di Mao poi; un via vai che si ritrova nei piatti di noodles freddi ricoperti di coriandolo, sapori cinesi accompagnati da piroshki di patate slavi e unti tagliolini centroasiatici farciti con montone.
È il momento di perdersi tra i sentieri percorsi per millenni da popoli diversi, nomadi e mercanti, esploratori e colonizzatori, in questa vastissima rete che copre mezzo mondo fino alla lontana Europa.
Sono in viaggio in Asia Centrale senza computer e scrivo a mano (o sul cellulare!). Al mio rientro pubblicherò articoli più approfonditi su questa magnifica, mitica regione. Intanto prendo appunti su carta per me e, soprattutto, per voi.
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