Glu-glu, gnam-gnam; ovvero il marketing alla cambogiana
Viaggio sulla costa e le isole della Cambogia
“Per caso, avete visto una ragazza italiana che alloggia qui?”
“No…”
“Sì”, interviene un ospite. “Ti stava aspettando. Ha detto che sarebbe andata a prelevare e che sarebbe tornata subito.”
Sono appena arrivata da Vientiane, la capitale del Laos, a Phnom Penh e cerco la mia amica Alessia. Sono anni, oramai, che ci diamo appuntamenti nei luoghi più disparati e sempre, rigorosamente, senza internet. “Torno dall’Italia, ci vediamo allo Starbucks di ZhongShan Park a Shanghai”, oppure “Ti aspetto verso ora di cena nel Boulevard Levski a Sofia”. Stavolta è al Dolphin Hostel nella capitale cambogiana. Questi appuntamenti sono delle prove di fiducia e pazienza. Alessia, infatti, compare dopo un bel po’: il prelievo è diventato una sosta al bar e qualche boccale di Angkor Beer per mezzo dollaro; intanto l’aspetto in preda a un qualche virus che mi ha fatto passare una notte infernale in Laos. Sono ancora tremante e debilitata.
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Lei non è venuta in Laos, ma è in Cambogia da cinque giorni, conosce tutti i misfatti dei Khmer Rossi ed è diventata della stessa sostanza della Angkor Beer. “Dai, andiamo, è tardi.” Non mi permette di visitare la capitale, ha già organizzato il viaggio verso la costa: non ne può più di stare nello stesso posto. A malincuore, almeno per me, ci lasciamo indietro tutte le meraviglie e gli orrori di Phnom Penh sfrecciando tra i campi verso sud. Ai lati delle vie ci sono quelle vacche del sud-est asiatico con la simpatica gobba a punta e così magre da sembrare quasi bidimensionali; oltre a loro, un paio di volte scorgiamo teli bianchi stesi su vittime di incidenti stradali, così comuni nella penisola indocinese, e il nostro spericolato autista non è certo di conforto. In aggiunta, il misterioso virus laotiano che mi sono portata da oltre confine continua il suo malefico corso.
Dopo circa quattro ore di sballottamenti, approdiamo sulla costa. Ne ho fatta di strada! Sono partita dalla fredda Pechino a inizio gennaio, sono andata a Nord, ad Harbin, a vedere il Festival delle sculture di ghiaccio con circa -30°, poi sono scesa a Changzhou per farmi regalare da un’amica un massaggio fatto dai ciechi e a Shanghai per festeggiare il compleanno; ho fatto una breve tappa a Hong Kong, perché andarci ogni tanto fa bene al cuore; e infine ho attraversato il Laos in solitaria con il mio zaino verde.
Nel frattempo è scesa la notte e ci tocca noleggiare un tuk-tuk che ci conduce nella silenziosa campagna cambogiana. L’ostello, o quel che è, è composto da due capannoni zeppi di backpackers occidentali. Si avvicinano i proprietari, alquanto sballati, per dirci che hanno fatto un errore ed è tutto pieno: possiamo dormire per terra, se ci va, o andare via.
Mi infurio: sto sempre peggio e non se ne parla che dorma per terra. Gli mostro la prenotazione fatta online. È lì, non può negarci un posto letto. Per di più siamo nel mezzo del nulla, di notte. Il gestore, con gli occhi iniettati di sangue e la voce strascicata, fa spallucce. “We overbooked. Se non c’è posto, non c’è”.
Ci chiama un tuk-tuk che ci riporta in città, sempre attraverso la notte buia e la campagna solitaria. Siamo ancora senza internet ma l’autista (è un autista chi guida un tuk-tuk?), ci lascia davanti a un hotel di terz’ordine, di quelli squallidi che sanno di fumo e con i mobili scoloriti. Non fa niente, l’importante è avere un tetto sopra la testa e un letto dove dar libero sfogo alla mia febbre. Fa caldissimo, ma passo la notte tremando sotto due piumoni. Forse ho addirittura le allucinazioni: non ricordo molto. Alessia mi dà delle tachipirine e aspetta. Il giorno dopo mi dice: “Mi sono messa a pensare a come far rimpatriare il tuo corpo, nel caso fossi morta.”
Grazie tante.
Meno male che sto meglio. Non in forma, ma meglio, e sono pronta per la nostra esplorazione cambogiana. Visitiamo Kep e Kampot, le due città costiere per eccellenza. Fino agli anni ’60 erano il luogo di villeggiatura dei coloni francesi mentre oggi sono mete balneari per chi preferisce evitare la super turistica Thailandia. Kampot è una città tranquilla, dove passeggiare tra caffè e case coloniali con i loro tetti bianchi e i palmeti. Un sogno d’altri tempi, che forma nella mia mente immagini di eleganti completi candidi di uomini dalla pelle bruciata dal sole e salette oscure immerse nei fumi dell’oppio.
Kep, invece, ci accoglie con l’oscena statua di un enorme granchio sul lungomare, con la chela che saluta i visitatori. Mi piacerebbe conoscere l’ideatore.
A parte il Parco Nazionale di Preah Monivong e la vita balneare, non ci sono altre attrattive, così ci imbarchiamo per l’Isola dei Conigli, un isolotto ricoperto quasi interamente da foresta tropicale. Solo una spiaggetta è percorribile, costeggiata da palme da cocco e barchette di pescatori. Ci sono anche dei bungalow di legno per i turisti (dentro: un letto, un armadio, sul retro un water e un tubo per la doccia) e due ristorantini con le panche ai tavoli. La concorrenza tra i due locali è spietata e ci lasciamo convincere dalla tarchiata proprietaria del secondo ristorante, che attira clienti urlando a squarciagola “glu-glu, gnam-gnam!”. Bene, cibo e Angkor Beer è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
Sulla Rabbit Island, ovvero Koh Tunsay, l’elettricità c’è per solo due ore al giorno. Siamo isolate dal mondo, su un’isola semi deserta nel Golfo del Siam. All’orizzonte, nel buio, si scorgono le luci delle imbarcazioni dei pescatori, mangiamo accompagnate dal fruscio della risacca, gustiamo un amok di pesce e beviamo una birra fresca (gnam-gnam, glu-glu). Un gruppo di giovani inglesi si lascia andare agli schiamazzi e un addestratore di cani spagnolo mi salva da un enorme ragno rosso che si arrampica minaccioso sulla mia spalla.
Il giorno dopo proviamo a esplorare la zona selvaggia dell’isola, ma dopo qualche passo nella giungla decidiamo che forse non è una cosa molto sensata, specie in infradito. Ci spostiamo, allora, su un’altra isola, a Koh Rong Samloem, braccate dall’addestratore di cani che, a conoscenza dei nostri piani, si fa trovare sulla barca: “ho deciso di viaggiare con voi”, ci annuncia senza essere invitato. Poi comincia a farci foto.
Navighiamo fino a una spiaggia da cartolina, come si suol dire: mare azzurro, sabbia bianchissima, eleganti bungalow dalle larghe vetrate. Qui il turismo è composto per la maggior parte da famiglie cinesi, mentre i giovani occidentali sono sulla vicina isola delle feste, Koh Rong. Dopo anni in Cina, ci identifichiamo quasi più con i primi.
Persino qui, lontano dal mondo, spicca la solita insegna a forma di pizza e la scritta “Italian cuisine”. Ci avviciniamo al nerboruto pizzaiolo con le braccia pelose affondate nell’impasto.
“Oh, are you Italian?” gli chiediamo sorprese.
“Yes!”
“Ah, che bello, come stai? Ci consigli un posto dove alloggiare?” gli domandiamo nella nostra lingua madre.
Ci guarda imbarazzato: “Sorry, I am Turkish.”
“Ah.”
Nonostante ciò, il ristorante “italiano” ha anche dei posti letto a poco prezzo. Prenotiamo una camerata da quattro, uno dei letti è già occupato. L’addestratore di cani, però, ha un’idea: caccerà la tipa del quarto letto per affittare la stanza per soli noi tre, così da avere la nostra privacy per tutta la notte. Io e Alessia ci guardiamo: no, a noi non sembra per nulla una buona idea. Lei è molto più diplomatica di me e lascia la stanza pensando a come rifiutare con gentilezza; io, al contrario, senza mezzi termini, mando via con risolutezza lo spagnolo. Che si trovi un altro posto dove dormire, non abbiamo intenzione di passare la notte sole con lui, tanto più che non è stato invitato. Il mio atteggiamento lo fa infuriare: è ben piantato e io sono alta un metro e sessanta. Inizia un’escalation di parole, lui grida e minaccia, rosso in viso; non mi lascio intimidire, sebbene dentro di me sia spaventata. Poi, all’improvviso, si calma (meno male): prende le sue cose e se ne va. Solo più tardi scoprirò che è andato alla ricerca di Alessia per piangere con lei. Beh, meglio il suo ego infranto che trascorrere la notte con lui.
Vado a farmi una doccia sul retro dell’ostello dove scopro una buca scavata nella sabbia nella quale bruciano spazzatura e plastica. Osservo lo spettacolo scioccata, mentre “mi lavo” con l’acqua di mare che esce dalla doccia.
“Qui si fa così, non sapremmo dove buttarla la spazzatura, sennò”, ci spiega più tardi Amos, istruttore di sub nonché allevatore di squali da acquario, anche lui turco. L’allevatore di squali è molto più a modo dell’addestratore di cani e passiamo ore a chiacchierare del suo inusuale lavoro, mentre ci prega di trovargli un’occupazione in Cina.
A Koh Rong Samloem non c’è molto da fare se non nuotare nell’acqua cristallina, stendersi sulla spiaggia candida e scattare meravigliose foto per Instagram sottolineando che è febbraio e siamo ai tropici a bere cocco tra un bagno e l’altro. Ogni tanto passa l’addestratore di cani che corre sulla battigia, lanciandomi occhiate d’astio. Alessia si sente dispiaciuta per l’accaduto.
Il giorno dopo ci rendiamo conto che tutta quella tranquillità patinata non fa per noi, abituate alle pericolose strade di montagna, al delirio di alcune città e alle lunghe nottate in treno. Così decidiamo di riattraversare tutta la Cambogia in senso inverso fino all’estremo nord. Ci imbarchiamo per Sihanoukville senza accompagnatori di sorta questa volta. Sihanoukville fu stata fondata nel ’64 dal Re Norodom Sihanouk, che riparò in Cina durante il sanguinoso regime dei Khmer Rossi. Città coloniale come le vicine Kep e Kampot, è stata rasa di recente al suolo dalle ditte edili della Cina che stanno ricostruendo il Sud-Est Asiatico a propria immagine e somiglianza: brutti edifici di cemento e innumerevoli banche cinesi hanno preso il posto delle belle ville coloniali. Non ci fermiamo a lungo: montiamo subito uno di quei magnifici bus notturni con le cuccette da una piazza e mezzo che si trovano solo in Asia, in direzione Angkor Watt.
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Che viaggio intenso! Ho un'amica coreana con cui mi trovo ogni tanto in giro per il mondo, come tu fai con Alessia, mi piacciono queste situazioni.
Anche a me piace un sacco darci appuntamento in qualche punto del pianeta, ma in una storia così avrei senz'altro preferito non essere sola. Hai poi saputo che virus era? 🤔