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Questo non è un articolo di viaggio, ma una memoria risalente a un mondo che non c’è più, un mondo di qualche anno fa che oramai è stato invaso dal turismo di massa cinese e dalla neo colonizzazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico.
Oggi, mi dicono, il Laos sta diventando come la Cambogia e la Thailandia, un parco giochi per i potenti turisti vicini. All’epoca, invece, era ancora un paese poco visitato, tranquillo e lento.
Il Laos, la scacchiera dei potenti
Atterro a Luang Prabang in una calda mattina di metà gennaio e, se chiudo gli occhi, riesco ancora a vedere oltre l’oblò la terra rossa che si avvicina. Appollaiata tra due fiumi, il maestoso Mekong e il meno conosciuto Nam Kham, sorge la seconda città più importante del Laos. È piccola, storica – è patrimonio dell’Unesco – un po’ infangata dall’umidità tropicale, è fertile. È accoccolata tra i monti del Nord del Paese: a sole 24 tortuose ore di autobus c’è la Cina, a un paio di giorni di barca verso Ovest c’è la Thailandia e, oltre le cime a Est, il Vietnam. Il Laos è bagnato dal Mekong che a Sud, dopo aver fatto sorgere le 4000 isole per solo sei mesi all’anno, segna il confine con la Cambogia.
È l’unico paese della penisola indocinese senza sbocchi sul mare, e anche quello meno invaso dai turisti - per ora. Del Laos non si parla mai quando si ricorda la guerra del Vietnam e delle conseguenze che ha avuto sulla Cambogia, così strettamente collegate alla storia dei Khmer Rossi. Eppure era il covo di spie americane, russe e cinesi che vi giocavano a scacchi in modo silenzioso, oltre ad essere stato il Paese più bombardato durante il ventesimo secolo. In alcuni punti della campagna ci sono ancora i cartelli “attenti alle mine”.
È un paese comunista, figlio del movimento di sinistra dei Pathet Lao. In apparenza, non ha le ferite del Vietnam, né i mendicanti della Cambogia che con i loro moncherini suonano malinconiche musiche popolari davanti ad Angkor Watt nella speranza di un dollaro. All’epoca non si sentiva neanche la presenza della Cina, che negli altri Paesi aveva già raso tutto al suolo per costruirci le sue banche e i suoi palazzi con le inferriate. Un triste esempio ne è Sihanoukeville, sulla costa cambogiana.
Il Laos è un luogo dove ci si muove piano piano, si fa colazione con il mango sotto il sole mentre il gestore ti parla in un inglese impeccabile e storce il naso ai turisti francesi che credono che la loro lingua sia ancora quella franca. “Qui parliamo tutti inglese e cinese.
Abbiamo tanti turisti dalla Cina. Tu lo parli il cinese, dici? E allora come si dice questo?” Mi chiede mettendomi in imbarazzo quando mi mostra una pinzatrice. Forse il francese non lo parlano più, ma le case coloniali furono costruite tutte dai nostri cugini d’Oltralpe. Dopo ottant’anni sono ancora ben tenute, pulite, dai colori pastello e con i banani nel cortile.
Luang Prabang, il Grande Venerabile Buddha
Nel palazzo reale Haw Kham di Luang Prabang, ora adibito a museo, si entra scalzi e con braccia e gambe coperte come nei templi. Vi sono conservate le vestigia dei sovrani che qui avevano la capitale del Regno del Nord, il quale venne annesso al Siam nel XVIII secolo e ridiviso solo dai francesi alla fine del XIX secolo, quando vi posero Re Zakkarine accanto a un commissario francese.
La caratteristica di Luang Prabang è la pace racchiusa nel rosso della terra, nel blu del cielo della stagione secca e nel bronzo dei fiumi, con pennellate di oro e di verde dei templi e dei Buddha, che visito tutti, ognuno unico, ognuno con la sua colorata arte come le nostre chiese e i giovani monaci adolescenti che giocano con il cellulare tra un gong e l’altro.
Il caffè è buono e viene dall’altopiano del sud. Lo servono con il latte condensato per mezzo dollaro e ogni occasione è quella giusta per accomodarmi a berlo lungo il Mekong, mentre osservo le barche dei pescatori scivolare oltre l’infinito dei monti che si susseguono silenziosi, come se questo fosse l’unico luogo popolato del mondo.
Al tramonto l’intera cittadina sale sul Monte Phousi. Nel cielo una palla infuocata discende velocemente e dà fuoco al paesaggio di vette e corsi d’acqua. La massa di locali e di turisti che ogni sera si riunisce sulla cima della collina della città, uno attaccato all’altro nonostante il caldo, inneggia a questo breve attimo di bellezza. Qualcuno rilascia dei passerotti comprati da una donna che li vende appositamente. Il sole tramonta in fretta ai tropici.
Subito dopo la strada principale si copre di banchetti che vendono abiti e tessuti tradizionali, cibo fritto, pesce fresco, pad thai e tom yum di gamberi, che diventa il mio primo mezzo di sostentamento tanto è saporito.
Viaggiatori occidentali negli onnipresenti pantaloni di tela con gli elefanti e donne in viaggio da sole vagano tra i banchetti e io li imito. Assaggio dell’alcol da una bottiglia con dentro dei serpenti e degli scorpioni, bevanda prodotta nei villaggi del nord. Sa di alcol e basta.
Il giorno dopo per caso incontro un altro italiano che gentilmente mi scorrazza in motorino tra scene che sembrano tratte da antichi film colonialisti. Con la polvere dei sentieri di campagna negli occhi e in bocca, ammiro scorci di vallate ed elefanti che fanno il bagno nel fiume.
Raggiungiamo le cascate di Kuang Si, a 29 km a Sud di Luang Prabang e ci tuffiamo nel celeste più celeste che uno potrebbe immaginare. Mi sembra di essere per un attimo in Tibet. Queste pozze così luminose stonano con i colori saturi e caldi a cui mi sono già abituata. Si può fare trekking qui intorno e c’è anche una riserva di orsi.
Poi è la volta delle Pak Ou Caves, delle grotte calcaree che custodiscono 40.000 statue di Buddha di ogni grandezza e fattura. Vi si accede solo via fiume e all’interno serve una torcia. Le statue sono danneggiate o vecchie e vengono riposte qui quando non possono essere più utilizzate per la venerazione nei templi. A ogni Capodanno Lao i laotiani si recano qui per lavarle e acquistare meriti.
Vientiane, l’osso del Buddha e gli eroi comunisti
La capitale Vientiane è un balzo nella modernità. Palazzi moderni e motorini sono la sua essenza, ma ad ogni angolo, anche qui, sbucano templi alti e slanciati in stile vihan. D’oro, bianchi, colorati, tutti con un cortile e delle steli. Elencarli sarebbe impossibile. Vi si entra scalzi, si può star lì a meditare o a osservare le pitture sacre con le vite del Buddha.
Il museo nazionale di storia è un mix tra esaltazione delle vestigia del passato, reperti storici – come una giara della “piana delle giare” al nord – e festoni inneggianti al partito socialista laotiano, identici ai manifesti dei lavoratori muscolosi e irrealistici dell’Unione Sovietica.
Su Avenue Lane Xang c’è il Patuxai, l’arco di trionfo o monumento alla vittoria, costruito dai francesi e circondato da palme. Alla fine del viale sorge il simbolo del Laos: il Tat Luang, un tempio totalmente dorato nel quale, si dice, è conservato un osso del Buddha.
Quest’ultimo è sdraiato su un lato in una mega-statua dorata anche’essa a fare da guardia alla reliquia. Non lontano dalla capitale, a 25 km, sorge il Wat Xieng Khuan, il Buddha park, un’angosciante parco con 200 statue di Buddha e teste mostruose di esseri mitologici.
La sera, come a Luang Prabang, prima del colorato night market ci si riunisce per il tramonto, questa volta sulla spiaggia del Mekong. Per pochi minuti il cielo diventa così rosso come non l’ho mai visto prima e la Thailandia, sull’altra sponda del fiume sembra coperta di sangue.
Champasak, l’antica capitale Khmer
La Lao airline è una delle peggiori del mondo, dicono. Il terminal per i voli interni della capitale, raggiunto con il tuk-tuk, il mezzo tipico del sud est asiatico, (una sorta di risciò motorizzato) è un capannone prefabbricato con sedie di plastica e un banchetto che vende caffè e croissant che sanno di carta. All’imbarco mi dirigo verso uno dei due gate e dopo un’oretta sono già a Pakse, capoluogo del sud del Laos, un’angosciante città con palazzi di cemento dalla quale non vedo l’ora di fuggire.
L’unica cosa positiva del luogo è stato farsi invitare dal passeggero accanto a mangiare una colazione alla vietnamita che annovero ancora fra le più buone della mia vita: caffè lao con latte condensato, tè, un brodino con due uova all’occhio di bue e due polpette di carne da condire e mescolare, e una baguette fresca che qui consumano spesso. Dal porticciolo della triste Pakse oltre il fiume si scorge il profilo dei monti, simili a una donna coricata.
Mi ci faccio condurre dal gentile passeggero, al quale confido il mio progetto di discesa del Mekong. Purtroppo non esistono passaggi turistici, ma insistendo un po’ con il gestore di un bar vicino al porticciolo per pescatori trovo un’imbarcazione privata e un barcaiolo che, per 80 USD mi trasporta fino alla città storica di Champasak.
Il sole splende sulla lussureggiante vegetazione dei tropici dai quali provengono grida di scimmie e altri animali. Sono l’unica straniera e non si vedono altre imbarcazioni se non quelle, in lontananza, dei pescatori. È impossibile capire se attorno vi siano centri umani oltre alla cittadina di Pakse ormai lontana alle mie spalle.
Forse no, forse siamo noi soli con la natura, che ci accompagna fino alla prossima meta. Il barcaiolo attracca su un banco di fango attraversato da un asse di legno e poi da una scaletta semi nascosta nella foresta. Mi fa un cenno come a dire “vai su” e io obbedisco.
D’altronde, non potrei fare altro.
In cima sorge una bellissima guesthouse con terrazza sul Mekong nel mezzo del villaggio di Champasak, dove affitto subito una stanza e noleggio una bicicletta per dirigermi a Wat Phu. Qua fa molto più caldo che tra i monti del nord e sotto il sole cocente di gennaio mi dirigo verso le rovine dell’antica capitale khmer, antecedente ad Angkor Wat, a quest’ultima collegata da un’antichissima via.
I templi diroccati, con le loro ballerine celesti e le buddhità incise sulla pietra, si arrampicano nella foresta su questo monte quasi cilindrico che si chiama Lingaparvata, ovvero la montagna del linga, simbolo di virilità, fertilità e di Shiva. Un lingam di pietra è posto sulla cima, ma è inarrivabile. Vago un po’ tra le rovine e trovo una grotta benedetta dedicata al Buddha – che ha soppiantato il culto induista – e nel quale scorre un torrente sacro. Dei ragazzini raccolgono l’acqua santa in bottigliette di Sprite e Coca-cola e cercano di rivenderla. Rientro nella guesthouse attraversando un’unica via polverosa, con bellissime ville coloniali e dignitose casette nelle quali scorrazzano bambini e galline.
Siphan Don, 4000 isole nascoste dal Mekong
Dopo Champasak, l’ultima tappa del Laos è Siphan Don, le 4000 isole, la maggior parte delle quali affiora soltanto durante al stagione secca. Ci si può arrivare con un van insieme ad altri turisti.
Le isole abitate sono diverse, ma io mi fermo al capolinea, Don Det. Pur essendo una delle principali, è minuscola, senza una via e senza vere e proprie casette ma solo bungalow. Attraverso veloce la zona turistica dalla quale arriva un’assordante musica da discoteca in pieno giorno e mi inoltro in una via più tranquilla dove scorgo i bungalow abitati dai locali, e ne prenoto uno tutto per me con l’amaca in terrazza per soli 3 dollari a notte.
Un sentiero di polvere fa il giro del margine dell’isola ed è percorribile solo a piedi o in bici, è pieno di buche coperte da assi di legno traballanti. La sera, senza illuminazione, si rischia di caderci dentro e di scivolare nel fiume.
Bambini, galline, cani e maiali convivono in pace. Non c’è nulla da vedere a Don Det, se non la natura. Si può, però, fare kayak o andare ad esplorare in bici l’isola disabitata di Don
Khon, collegata con un ponte. Non che qui ci sia molto di più: solo un paio di antichi binari sui quali passava un treno merci coloniale trasportato dai mercantili dalla Cambogia, sull’altra sponda. In questo tratto del Mekong i turisti cercano di avvistare i delfini rosa. Non è facile muoversi per Don Khon, poiché è coperta da vegetazione incolta e a tratti invalicabile. Raggiungo però delle cascate selvagge e scopro che sulla spiaggia ci vive una famiglia che gestisce un ristorante.
Rimango su queste isole il tempo di rilassarmi in solitudine per tre o quattro giorni e intanto faccio amicizia con uno svedese che vi abita da quarant’anni e raccoglie stranieri nostalgici dei bei tempi andati nel suo bungalow-ristorante a pelo d’acqua. Così vengo travolta dalla loro malinconia, come se 40 anni fa fossi arrivata anche io in queste terre sconosciute, decenni dopo l’abbandono dei colonialisti, e avessi iniziato una vita qui.
Invece no, invece io sono tornata.
Riapro gli occhi e sono in Italia.
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La tua foto delle cascate di Kuang Si mi ha ricordato Pamukkale, in Turchia... curioso.
Gran bel pezzo e gran bel viaggio! Molta invidia!!