Da Nukus è facile – ma non comodo – raggiungere la cittadina di Moynaq, un tempo la città principale sulle sponde dell’oramai prosciugato lago d’Aral. Ogni mattina alle nove, dalla stazione dei bus nella zona ovest di Nukus, l’avtovoksaal Sarancha, parte uno scassatissimo autobus in direzione Moynaq per 25.000 som (meno di due euro). In alternativa si può noleggiare un taxi privato per 500.000 som (circa 36 euro): si viaggerebbe più comodi, certo, ma ci si perderebbe tutta la parte folcloristica.
Ciao, sono Alessandra! Qui mi vedi con il cuore sospeso sul fondale prosciugato di quello che un tempo era il quarto lago più grande del mondo. Viaggio spesso da sola in Asia, altre volte con la compagnia della mia amica Alessia.
Di recente ho esplorato l’Asia Centrale come donna che viaggia indipendentemente, e nelle mie Lettere ti racconto questa esperienza. Iscriviti per scoprire i miei racconti e ritagliarti un momento di calma in questo mondo frenetico.
Direzione Moynaq e il fu lago d’Aral
Il viaggio dura tre ore e mezzo e la marshrutka di ritorno è alle 15. È bene essere puntuali se non si vuole rimanere bloccati in quella città quasi fantasma, perché non ci sono alternative oltre all’allungare delle banconote al primo karakalpako contento di farsi la giornata e di riportare in città dei turisti sprovveduti. L’autobus, l’unico che segue le polverose vie verso nord per depositare i passeggeri nei depressi paesini karakalpaki, è pieno fino all’inverosimile. La nostra presenza semina il panico tra l’autista e il giovane bigliettaio, che tentano di costringerci a prendere un taxi perché è raro vedere dei turisti viaggiare in quel modo scomodo e alquanto sporco. Che figura ci fanno?
Noi non demordiamo, oramai essere impolverate è diventato il nostro modus vivendi dopo così tante settimane su sentieri di montagna e nel deserto, in metropoli inquinate e a cavallo. Prendiamo posto schiacciate tra vecchie signore sudate – anche noi lo siamo – che, una volta scoperto che mastico un po’ di russo, iniziano a bombardarmi di domande, tanto per cambiare.
“Sei una studentessa?” (No, ma ce l’hanno chiesto in tanti, forse perché siamo due donne senza uomini al seguito? Nei musei ci hanno sempre fatto lo sconto studente senza neanche chiederci se lo fossimo). “Hai fratelli e sorelle?” “E il marito?” “Figli?” “Sei stata a Dubai? Oh, io vorrei tanto andare in India!”
L’autista mette in moto la marshrutka dondolante e la musica a palla, mentre il bigliettaio, un ragazzo di circa vent’anni, continua a guardare queste due straniere fuori posto. Non so come si comportino gli altri turisti – o forse sì, dato che una coppia di amici da Venezia che era in Uzbekistan in quegli stessi giorni ha preso il taxi per andare a Moynaq – ma a noi piace stare a stretto contatto con i locals. Forse un po’ troppo stretto, in questo caso.
Dopo un po’, mentre io continuo ad allenare il mio russo, il bigliettaio si rilassa e fa sedere Alessia accanto all’autista, così vicino al parabrezza che potrebbe spaccarsi la testa alla prima frenata improvvisa. Non ci sono cinture di sicurezza, ça va sans dir. Loro iniziano a chiacchierare e lui le confessa che vuole migliorare il suo inglese e sta studiando coreano per andare a vivere in Corea del Sud. Poi, per farci piacere, mette musica pop e dagli altoparlanti fuoriesce la voce di Lady Gaga con il suo Poker Face, mentre tutt’intorno a noi ci sono visi orientali e un paesaggio desertico ricoperto di cristalli di sale ed esili arbusti mossi da una brezza contaminata di fertilizzanti nocivi. Arriviamo a Moynaq sudate e con le gambe anchilosate. Forse il taxi sarebbe stato davvero più comodo, ma io mi sarei persa le lezioni sul prosciugamento dell’Amu Darya e Alessia l’ebbrezza di poter morire da un momento all’altro.
L’ennesimo fallimento sovietico
Un tempo, questa regione era un fertile terreno agricolo che alimentava le popolazioni e i viaggiatori lungo la Via della Seta. Tuttavia, con l'arrivo dei russi, i sostenibili campi di cotone locale furono rimpiazzati da coltivazioni massicce di cotone americano, distruggendo ogni altra coltura e costringendo gli uzbeki a dipendere dalle importazioni dalle altre repubbliche sovietiche per potersi sfamare. Tale monocultura devastò il terreno dell’Uzbekistan e in particolare quello karakalpako. Il cotone, inoltre, ha un costante bisogno di essere irrigato e così l’Amu Darya fu incanalato in acquedotti di bassa qualità che disperdevano quintali d’acqua. Il fiume, che un tempo alimentava il lago d’Aral, muore da solo nel deserto e il quarto lago più grande del mondo è stato prosciugato del 90% delle sue acque.
Il terreno del Karakalpakstan è oggi inutilizzabile a causa delle sostanze tossiche usate nella coltivazione del cotone e del deposito di sale, che arriva con il vento dal letto ormai asciutto del lago d'Aral e dai residui salini emersi a causa delle irrigazioni passate. Fino agli anni Sessanta, Moynaq era un paradiso balneare ed economico: fiorì grazie all’esportazione del pesce in tutta l’Unione Sovietica e il clima era dei migliori. Ora le estati sono torride, gli inverni gelati e la città quasi vuota. Il cielo è coperto e il vento alza la polvere tossica che ci entra negli occhi e nelle narici mentre camminiamo tra gli edifici colorati dalle finestre rotte che appaiono disabitati. I cani randagi con la scabbia girano liberi per le strade. Attraversiamo la desolata via principale in un paesaggio apocalittico: le uniche tracce di vita, oltre ai cani, sono i pochi minimarket e una scuola. Due donne che spingono un passeggino ci tagliano la strada, un uomo ci insegue gridando le solite domande. “Di dove siete? Siete sposate? Posso offrirvi qualcosa da bere?” L’intonaco scrostato e il vento che fischia tra i vetri rotti stringono il cuore. È difficile immaginare che un tempo questa città era stata ricca e vivace, con le sue industrie di pesce e i bagnanti in estate. I bambini sovietici venivano a fare la colonia qui, tre mesi pagati dall’URSS.
Il monumento funebre al lago d’Aral
Dopo quattro chilometri a piedi, raggiungiamo l’antico porto. Antico, più che vecchio, è la parola giusta tanto pare immerso nella polvere della Storia. Già poche centinaia di metri prima di arrivare al punto segnalato da Google Maps, il terreno sprofonda in una depressione che si stende oltre l’orizzonte.
Tre barche arrugginite poggiano sulla sabbia. Scrutiamo tra i rovi e le conchiglie e il cuore salta un battito: siamo sul fondale del lago d’Aral e non ce ne siamo neanche accorte. Ci siamo arrivate e basta, camminando.
Di fronte a noi, a perdita d’occhio, solo sabbia e arbusti secchi lì dove un tempo c’era un immenso lago la cui scomparsa ha provocato ingenti danni economici, ecologici e sanitari. Un gran numero di bambini qui nasce malformato e tanti non superano l’anno d’età, quasi tutti gli abitanti soffrono di malattie alle vie respiratorie e nulla è più coltivabile. Lì, da qualche parte, potrebbero esserci ancora virus e chissà cos’altro, residui degli esperimenti dei laboratori sovietici che un tempo erano confinati sulle due isole del lago, ormai non più circondate dalle acque e quindi con la possibilità di lasciar sfuggire qualcosa di pericoloso. Un altro grande fallimento dell’Unione Sovietica. Con commozione raggiungiamo il fondale all’altezza del porto dove un gruppo di barche arrugginite e con la chiglia distrutta dalle intemperie formano il deprimente “monumento al lago d’Aral”. In alto, sulla sponda, al posto del vivacissimo porto d’un tempo, è stato installato un triste museo e quattro yurte attendono i turisti.
Torniamo indietro, attraversiamo ancora le strade vuote e i cartelloni pubblicitari scoloriti, inseguite dai fantasmi di un sogno di ricchezza che si è trasformato in un vuoto, desolato deserto. Non si può comprendere la grande tragedia dell’Uzbekistan, in passato un fertile, ricco, colto territorio sulla via della Seta, senza vedere Moynaq e la salma del lago d’Aral, anche se raggiungerle non è né immediato né comodo, date le vaste distanze e le vie dissestate. Eppure ne vale la pena, vale la pena di mettersi su un treno a lunga percorrenza per perdersi in una regione depressa del mondo, dove sembra non esserci nulla di visitabile e invece c’è tutto: gente rassegnata ma curiosa, la tenacia dell'arte contro la brutalità, le grandi tragedie umane e ambientali, i fallimenti di un impero, dei cartelloni scoloriti e delle barche arrugginite che raccontano una storia senza lieto fine.
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