Quando ripenso ai momenti più felici della mia vita mi vengono in mente le immagini di me stessa ventiseienne che scivola su una barchetta di legno nel Mekong, che pedala da sola nella notte senza luci di un’isola fluviale e semi deserta in Laos dopo una festa con vecchi hippie di un’altra epoca, che ammira i laghi celesti del Tibet, che fluttua nel caos dorato dell’ombelico del mondo – Istanbul – che passeggia tra i palazzi bizantineggianti di Venezia. Sempre in Oriente. Sì, anche Venezia è Oriente: è la porta secolare tra l’Occidente perbene e il misto di etnie, lingue e spezie dell’Est. Nei secoli la Serenissima Repubblica di Venezia è stata la sorella rivale di Costantinopoli, entrambe tese verso l’egemonia sul Mediterraneo, entrambe un miscuglio di innumerevoli popoli, entrambe opulente e dalle cupole e le torri dorate. Il leone e la mezzaluna in perenne lotta. Oggi sembrano essersi scordate del loro legame durato 500 anni e della loro profonda somiglianza.
Il Mediterraneo, l’acqua, la storia, le ambizioni, l’essere un crogiolo di genti diverse, le isole, i ricordi, lo stile fluttuante, le curve dell’architettura, i gabbiani, i vaporetti, l’odore di pesce e mare, la brezza, la vita in barca. È per questo che a Istanbul mi sono sentita tanto a casa, tanto bene, nonostante fossi in solitaria. D’altronde, si è davvero soli quando si è in viaggio?
Nell’antica Costantinopoli sono stata sola, ma non è stato il mio unico viaggio di questo tipo. Ogni tot devo assolutamente partire per un viaggetto con me stessa. Si può – e a ragione – pensare che sia triste. Non nego che ci sono sempre momenti di solitudine e di sconforto, ma poi passano. Gli affetti sono una componente importante per gli esseri umani.
Gli spostamenti in solitaria, tuttavia, sono un’altra cosa: di certo non sono una vacanza, come pensano molte persone quando sentono la parola “viaggio”. Questo in realtà vale in generale, viaggio e vacanza sono due cose opposte. Il viaggio in solitaria inoltre, è tutto fuorché un rilassante intermezzo tra gli impegni della vita. Ci sono vari motivi per cui si viaggia da soli: il primo e più banale è che non si trova la compagnia per quella determinata escursione. Non tutti lavorano online, non tutti hanno i mezzi economici e la disponibilità temporale per spostarsi all’improvviso, né ne hanno la voglia. In questo caso si può o rinunciare al viaggio o partire comunque. Un’altra ragione per cui si viaggia da soli è che ci si può godere il viaggio esattamente come si vuole. Per me i viaggi di gruppo sono tabù: troppe teste da accordare e troppi bisogni differenti. Il massimo è viaggiare in due. Eppure a volte proprio non si ha voglia di adattarsi alle esigenze dell'altro e quindi crearsi un viaggio su misura può essere un’esperienza interessante.
Si viaggia in solitaria anche per stare con se stessi, per conoscersi, per dialogare interiormente, per ritagliarsi del tempo solo per sé altrimenti impossibile tra impegni lavorativi, sociali e tutte quelle piccole attività quotidiane – come pagare le bollette e fare la spesa – essenziali, ma che ci fanno distogliere l’attenzione su ciò che è davvero importante: il nostro mondo interiore.
Di solito parto per il primo motivo: mi viene voglia di viaggiare a gennaio – quando tutti sono già rientrati dalle vacanze di Natale – o ad ottobre/novembre, nel bel mezzo della stagione lavorativa e scolastica. Però poi, inevitabilmente, mi ritrovo a focalizzarmi sulla terza ragione: il dialogo con me stessa. Quando si viaggia da soli si scopre di avere un’infinità di tempo: sono sempre 1440 minuti in un giorno, ma sono dilatati; può essere un bene o un male, a seconda di come ci si sente. Anche lavorando, perché non viaggio mai senza il mio computer, il lavoro e la scrittura, ho comunque sempre troppo tempo.
A Istanbul avevo preso una bella routine: alloggiavo nel quartiere giovane e alternativo, Kadıköy, sulla sponda asiatica della città. È un luogo speciale, costellato di locali di tutti i tipi, di migliaia di gatti randagi, musica e murales. La mattina sedevo al caffè Kuff, all’aperto, sotto le pareti esterne dai colori sgargianti per lavorare, bere chai e rimpinzarmi di colazioni turche: ti servono un grande piatto con olive, verdure cotte, pomodori, cetrioli, formaggio fresco, frittata, pane, burro, marmellata, miele. Sono così abbondanti che bastano anche per il pranzo e hanno un prezzo ridicolo: tra i 4 e i 6 euro. Stavo lì ore a godermi la brezza estiva proveniente dal Bosforo, la deliziosa cucina turca e il mio lavoro, che ho la fortuna di non vedere quasi mai come un dovere, bensì come un piacere.
Il pomeriggio – vorrei poter dire dopo pranzo, ma non pranzavo mai dopo tali colazioni – prendevo il battello e me ne andavo a zonzo per la metropoli euroasiatica. Esploravo i mercati di spezie, colorati e odorosi, file e file di banchi esponevano torri di polveri aromatiche, dolci che luccicavano di miele e pistacchio quasi più dei gioielli nelle vetrine di fronte, grida dei venditori, assaggi di tè afrodisiaci, bigliettini da visita che mi piovevano tra le mani e che buttavo nella spazzatura appena uscita dai moderni caravanserragli.
Passeggiavo tutta sola e immersa nei miei pensieri sul Mar di Marmara, figlio del Mediterraneo da un lato e del Mar Nero dall’altro. Sono affezionata al Mar Nero. È il mare ucraino. Sapevo che esattamente sull’altra sponda la flotta russa bombardava Odessa e torturava gli abitanti della regione di Kherson. L’avevo amato, il Mar Nero. Quando mi stancavo della vita cittadina di Kyiv, preparavo il mio solito zaino e prenotavo una cuccetta in un treno notturno che attraversava da Nord a Sud l’Ucraina, piatta come se ci avessero passato un matterello, per risvegliarmi sulle sponde di quel mare misterioso, piccolo eppure circondato da civiltà tutte diverse tra loro. Amavo andare in un caffè qualsiasi a fare colazione con i syrniky – frittelle di formaggio – e marmellata. Avevo passato bei momenti a passeggiare da sola nei giardini che costeggiano tutto il lato sud della città, ad ammirare l’orizzonte dalla scala Potemkin, a osservare le navi cargo dal porto di Odessa con la statua di una mamma e di un bambino che salutano i marinai. Da lì partivano navi che avrebbero sfamato l’Europa e il Nord-Africa, grazie all’abbondanza della terra ucraina. Forse la statua di quella mamma stava a significare proprio questo: chi se non una mamma si preoccupa di sfamare i propri figli? Ora quelle navi sono bloccate, il porto assediato, gli abitanti in pericolo di vita sotto i missili e le atrocità russe. A questo pensavo quando ero dall’altra parte del Mar Nero.
Ricordavo anche un altro momento speciale trascorso con me stessa. Era accaduto l’anno precedente: abitavo ancora a Kyiv e dovevo raggiungere la mia amica Alessia a Sofia. La distanza via terra è notevole eppure non avevo nessuna voglia di prendere aerei: la guerra non era neanche immaginata e le strade erano sicure. Come al mio solito ho preso un treno notturno dalla capitale ucraina a Odessa, ne ho approfittato per mangiare i syrniky e passeggiare al sole aspirando l’odore salmastro misto a quello del petrolio proprio delle città portuali. Il parco Shevchenko di Odessa è un paradiso di pace, con i sentieri tra gli alberi che pare di essere in campagna, la fiaccola ai martiri del 2014 che non si spegne mai e la discesa verso il mare accompagnata da musicisti di strada biondi, pallidi e allegri. Chissà dove sono quei ragazzi, chissà se stanno combattendo contro l’invasore, chissà se sono ancora vivi, chissà se provano a fare musica per allietare il dolore dei concittadini.
Quel pomeriggio ho lasciato Odessa per prendere un bus verso Varna, disegnando un semicerchio lungo la costa occidentale del Mar Nero. 16 ore di autobus. Sono approdata in Bulgaria la mattina seguente, dopo due notti trascorse sui mezzi di trasporto. Dormo bene sui mezzi, quindi non ero molto stanca. Ma ero sudata, questo sì, ed era troppo presto per poter fare il check-in nel bed&breakfast e darmi una lavata. In Bulgaria, poi, faceva un caldo assassino. Ho iniziato a camminare all’ombra del parco sul lungomare: una peculiarità delle città affacciate sul Mar Nero. Vedevo le persone nuotare e prendere il sole. Non avevo il costume con me, era nello zaino lasciato alla reception. I tuffi non programmati sono sempre i più belli: mi sono tolta gonna e scarpe, rimanendo in mutande e top e mi sono semplicemente tuffata, togliendo di dosso tutto lo sporco degli ultimi due giorni di viaggio. È stato bellissimo. Ho nuotato con addosso quel senso di libertà che si prova solo quando si viaggia da soli e quella sensazione corroborante che si sente solo quando ci si stanca troppo perché si viaggia in modo scomodo. Poi mi sono asciugata al sole sulle rocce nude, ché non avevo teli o asciugamani con me.
Questi sono i momenti più felici della vita: quando il viaggio, soprattutto in solitaria, prende pieghe inaspettate. Quando mi faccio dei regali, quando trascorro del tempo di qualità con me stessa. Quando cammino e cammino lungo il mare, tra i vicoli della città vecchia di Istanbul, assaggiando un nuovo piatto seduta al ristorante da sola, sotto i minareti d’oro o in un tempio asiatico, quando mi tuffo in mare senza averlo programmato, quando mi racconto storie. Quando mi siedo in un caffè su cuscini o su tappeti l’uno sull’altro e scrivo il mio diario, ogni tanto lancio uno sguardo oltre la finestra per osservare la vita di gente dai tratti diversi.
Viaggiare da sola è tutto questo, è un regalo che si fa a se stessi, è un dire “sì, io mi voglio bene e mi dono la bellezza che merito”.
Lettere dall’Oriente è e sarà sempre gratuito. Ogni articolo è frutto di lunghe ore di scrittura, di studio e di revisione: gli daresti del valore e te ne sarei grata qualora decidessi di supportare questo piccolo progetto.
Leggi altre storie
Il mondo dietro a un finestrino
“Biglietto, prego. Grazie.” Una delle frasi che ho sentito più spesso nella mia vita. In aeroporto, sugli autobus, nei treni. Nei treni, soprattutto, questa parola ha quasi un altro sapore. Nella mia immaginazione alimentata da storie di viaggiatori del passato, il treno dovrebbe estendersi in ogni angolo del mondo, unire i popoli più lontani, ma con dol…
I sogni vanno realizzati - Laos
Scrivo queste parole su un quaderno verdeacqua comprato in una libreria di una stazione. Ha quasi 200 pagine bianche che ho deciso di riempire a mano con una penna blu. Solo in seguito detterò tutto al computer per una seconda stesura. Scrivo a mano per non stare sempre davanti a uno schermo e anche per sentirmi un po' come un viaggiatore del passato ch…
Problemi di frontiere (1) - Caucaso
Il viaggio è una metafora della vita – non sono certo io la prima a dirlo – e a volte sia il viaggio sia la vita si ingarbugliano così tanto che per uscirne si ha bisogno di tre cose: creatività, adattabilità e un pizzico di fortuna nell’incontrare le persone giuste. In realtà nella mia mente ronzano altri sostantivi: servono flessibilità, prontezza di …