È il 10 settembre 2023 e ieri mattina ci siamo svegliati con una notizia terribile: un terremoto di magnitudo 6.8 ha colpito le zone centrali del Marocco: la catena dell'Alto Atlante, Marrakesh e tutto ciò che c'è intorno. La scossa si è sentita forte anche ad Essaouira e chiunque conosco ha detto che pensava sarebbe venuta giù la casa. Hanno dormito tutti in strada o in spiaggia. Lì, al contrario dei villaggi che la separano da Marrakesh, i danni sono stati irrilevanti.
Leggendo le notizie delle ultime 36 ore si scopre che l'antichissima Medina – la città vecchia – di Marrakesh è andata parzialmente distrutta; interi villaggi sull'Alto Atlante sono stati rasi al suolo come se un bambino avesse schiacciato delle casette di marzapane e la moschea di Tinmel, con i suoi intagli a forma di conchiglia dal colore della sabbia, non c’è più dopo aver resistito per 900 anni alle intemperie della storia. Le serpeggianti strade di montagna che portavano ai villaggi sono franate e in alcuni punti le spaccature hanno dato vita a nuove sorgenti d’acqua e cascate. Se si toglie tutto il resto, è quasi affascinante questa storia dei continenti che si muovono: ciò che ci appare come solido, eterno – il mondo, la Terra – in realtà si muove qui e lì, si separa e si riunisce, un caleidoscopio con i grani che girano al ritmo di milioni di anni. L'Himalaya è nato quando il subcontinente indiano ha deciso di staccarsi dall'Africa e di andarsene a zonzo fino in Asia. Sulle Alpi italiane ci sono fossili di conchiglie marine e l'Atlante non è altro che l'Africa che vuole disperatamente unirsi all’Europa.
Il movimento naturale e imprevedibile delle placche terrestri condiziona le vite umane, le nostre piccole, misere vite umane. La città vecchia, la Medina – che in arabo significa appunto città – di Marrakesh che era lì da secoli, è stata per un po’ capitale imperiale con i suoi giardini e le antiche moschee dai minareti squadrati. Tutto ridotto in polvere in 30 secondi. Sono stata a Marrakech lo scorso novembre e poi ancora a inizio gennaio, in quattro giorni di spensieratezza e tajine. Non amavo la Medina di Marrakech, vittima della prostituzione del turismo di massa e dell'invadenza dei venditori, delle scimmiette ingabbiate e degli incantatori di cobra in Jemaa El Fna, la piazza principale circondata dalla Kasbah e dalla moschea Koutubia (danneggiata anche questa). La sera si riempie di danzatori e di stand di carne arrosto, che hanno sostituito le esecuzioni capitali che avvenivano qui in secoli sfumati nella memoria della storia.
Le Medine sono luoghi intricati, misteriosi, bui e luminosi al contempo. Ho vissuto parecchi mesi a Essaouira, proprio nella Medina. C'è un che di Venezia, lì: il garrito dei gabbiani che scandisce le giornate, l'odore di mare, i vicoli, le calli. Nella Medina di Marrakesh si può – si poteva – girare in scooter tra tappeti appesi in strada, banchi di spezie e turisti disorientati.
Eppure, nonostante il turismo, una Medina rimane, forse per pochi anni ancora, il cuore della città. La gente del posto ci vive, fa la spesa, si nasconde nei vicoli. I bambini giocano a calcio, alcuni con un pallone, altri con bottiglie di plastica; i gatti grufolano nei sacchetti della spazzatura lasciati davanti ai portoni – a notte fonda qualcuno passerà a raccoglierli. Una cosa che mi ha colpito molto è che a Essaouira albeggia dopo le 8:00 e così la Medina rimane immersa nell’oblio fino a tardi.
Per un occidentale è straniante: non si trovano un caffè o un atay alla menta almeno fino alle 10 ed è davvero inutile uscire così presto, a meno che non si voglia stare soli.
Il richiamo alla preghiera dei minareti è già suonato da tempo, ma la maggioranza lo ignora: in fondo siamo nel 2023 e anche nei paesi islamici ci sono cose ben più importanti della religione, a conti fatti. Poi i turisti arrivano, i negozi e i ristoranti aprono, le vie si riempiono dei colori dei caftani, delle borse etniche, degli arredi, dei tappeti, i gioielli berberi luccicano, l'odore di tajine inizia a spandersi nei vicoli. La Medina di Essaouira è bianca e blu come l'Atlantico, la difendono le mura costruite nel 1700 da Théodore Cornut su ordine del Re Mohammad III. La città, anticamente conosciuta come Mogador, nome datogli dai portoghesi, significa ‘ben costruita’.
Ormai si inizia a vedere la gente del luogo, che se non lavora beve caffè o tè alla menta ai tavoli per strada, ma mai davanti alle caffetterie dall'aria balinese costruite per i surfisti e i digital nomads che invadono la costa atlantica, ben attenti a non mischiarsi con i visi scuriti solcati da profonde rughe scavate dal sole e dal tabacco.
È ora di pranzo e le note della gnawa, la musica tradizionale dell’omonimo gruppo etnico subsahariano, invade la Medina. Basta svoltare, basta perdersi nell'intrico di vicoli come un ricamo ad uncinetto per ritrovare il silenzio, una panetteria sotterranea che inforna centinaia di cerchi di pasta per rifornire tutti i ristoranti della città, un buco che funge da tabaccaio, uomini in jilaba, guano di gabbiano, porte decorate che conducono a una moschea nella quale è vietato entrare, addirittura una sinagoga nella Melilla abbandonata e distrutta, il luogo più ventoso della città perché l'irrequieto alizee soffia incessante dall'Atlantico, increspando con violenza le onde della spiaggia a nord e incanalandosi tra le vie dell'antica zona ebrea. Si sente l'oceano infrangersi sulle mura oltre la fortezza: mattoni antichissimi che hanno resistito al moto ondulatorio della terra due notti fa.
Si svolta ancora e all'improvviso si viene assaliti di nuovo dalla gnawa, dall’odore di tajine, dai colori, dalla folla. Per immergersi nei segreti di una Medina bisogna stare al margine, girare attorno al centro, penetrare nei vicoli infestati dai gatti, seguire un bambino, un vecchietto in jilaba, l'odore del pane. Sono vicoli che sanno di storia, di tradizione, di quadri antichi ma photoshoppati: barattoli di plastica, cellulari, pacchi di sigarette a vendersi sfuse nei negozi-cubicoli o da persone accucciate a terra.
Le Medine vivono dopo il tramonto. Allora le donne col capo velato vanno in gruppo per le vie tra i venditori ambulanti che urlano il prezzo a voce alta, si fermano davanti alle montagne di olive condite in qualsiasi modo concepibile dall'ingegnosità umana o davanti al pollaro che ficca un pollo decapitato in un macchinario per spennarlo in mezzo a tante altre galline ignare di ciò che le aspetta. O forse lo sanno.
C'è il vecchietto monco che vende il pane piatto: 10 centesimi se sei del luogo, 30 se sei straniero; c’è il giovanotto con un carretto pieno di menta per l’atay, il signore panciuto che imbottisce panini con il cervello di vacca. Il carretto delle lumache è il più gettonato, ma è raro vederci un turista. Attorno vi si affollano solo i locali per bere il brodo di lumache e mandare giù gli invertebrati. E poi frutta e verdura e pesce fresco: montagne di gamberetti, anguille, cozze, una volta ho visto mezzo squalo. Tutto è freschissimo: l’Oceano è a pochi metri e si può annusare anche da lì. Si fa lo slalom tra la ressa di chi vende e di chi compra, degli stranieri residenti che fanno acquisti, di quelli incuriositi con la fotocamera in mano. Nella maggior parte dei Paesi si sta a casa a riposare, qui sembra che alle 9 di sera ci si svegli. Non è un Night Market come nelle città asiatiche, qui si vive davvero di notte dopo l'ultimo richiamo alla preghiera, anche quando non c'è il Ramadan. Infine le persone defluiscono, chiudono i battenti blu, per le vie rimangono pochi ubriachi, i gabbiani alla ricerca degli avanzi, i gatti che vivono la loro vita misteriosa e parallela, Baghera – il grande cane bianco che sembra una vacca. Infatti è quello il suo nome.
Ancora più tardi scompaiono gli ubriachi, gli spazzini sono passati a prendere i sacchi della spazzatura, i gatti rimangono a stiracchiarsi sotto le stelle e non lontano l'infrangersi delle onde sull'oceano di pece. Oltre, nient'altro fino in America. Così rimangono le Medine, nelle pieghe della storia, ma intanto si infiltra la modernità lenta inesorabile o distruttiva come un terremoto che porta via quel che è resistito per secoli e che ora dovrà imitare il resto del mondo, sempre più tristemente omogeneo.