Ogni anno a Harbin, nell’estremo nord della Cina quasi al confine con la Siberia, si tiene il festival delle sculture di ghiaccio più grande del mondo: The Harbin Ice and Snow Festival, luogo di meraviglie invernali. Il capoluogo della Manciura, però, offre molto di più al visitatore curioso, grazie al suo essere un punto di incontro tra culture occidentali e orientali.
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Dalla finestra accanto alla quale scrivo, mi volto ad osservare il cielo plumbeo che pare schiacciare i palazzi. Fa freddo, la foschia è calata sulle vie e i passanti sono delle ombre cinesi dalle forme più svariate. Caligine, freddo, ombre cinesi… chiudo gli occhi e mi ritrovo in una boule de niege.
Nella palla di vetro scende il nevischio di gennaio, attorno a me ci sono schiaccianoci russi, venditori di ravioli cinesi, husky che trascinano slitte su un fiume gelato. Sono in un ricordo pre-covid, di quando studiavo a Pechino. Avevo appena finito gli esami e progettavo un viaggio nel Sud-est Asiatico, al caldo, finalmente. Prima, però, avrei fatto un salto ad Harbin, capoluogo della Manciuria, nel grande freddo siberiano. Lì ogni anno, a cavallo tra gennaio e febbraio, si svolge il Festival del Ghiaccio e della Neve più grande al mondo.
The Harbin Ice and Snow Festival
In questa città industriale del nord della Cina ogni inverno i migliori artisti si riuniscono per installare statue di ghiaccio in una temperatura che tocca i 40 gradi sotto lo zero. Figure umane e animali, il faccione della statua della Libertà trasfigurato, veri e propri templi e pagode a grandezza naturale: si sa, quando i cinesi decidono di fare qualcosa, o la fanno in misura mastodontica o niente.
Circa 180.000 metri cubi di ghiaccio vengono impiegati ogni anno per creare castelli, torri ed edifici sui quali è possibile salire per scattare dall’alto foto di tutto il festival. Con il viso quasi del tutto coperto per il freddo, seguo i gruppetti di turisti su queste strutture.
Il materiale è ricavato dal fiume Songhua, affluente del mitico Amur, che divide la Cina dalla Siberia russa. Attraversa la città ed è il prediletto sia per la sua ampiezza sia per la limpidezza del ghiaccio che produce, come mi spiega uno degli addetti. Statue ed edifici vengono costruiti con l’ausilio delle nuove tecnologie, sebbene tradizionalmente venisse creato tutto a mano.
Vagando di giorno tra le sculture pare di vivere in un mondo parallelo, in una città nivea sorta sotto il cielo latteo, un mondo dai limiti d’ovatta oltre il quale non v’è nessun orizzonte. Tuttavia il momento più bello per visitare l’esibizione è dopo il tramonto, quando le sculture vengono illuminate da led dai colori psichedelici: il tocco kitsch che per i cinesi non guasta mai.
Mi perdo così tra templi, castelli e torri illuminate di fucsia, blu elettrico e verde veleno, faretti intermittenti e lanterne rosse sui viali di ghiaccio, in un’atmosfera tanto suggestiva quanto pacchiana.
L’Isola del Sole
L’esibizione principale dell’Ice and Snow Festival è dall’altro lato del fiume Songhua rispetto alla città, sull’Isola del Sole, dove vi è anche una riserva protetta di tigri siberiane. Dalla fine della via pedonale Zhongyang, imbacuccata in strati e strati di vestiti ma ancora tremante - ci sono -26 gradi - scendo sul fiume Songhua totalmente ghiacciato. Sulla superficie la gente si diverte a pattinare, a farsi trascinare su una slitta da un husky o dai quad. Nonostante il freddo la città è vivacissima.
Ho una paura matta che si possa aprire una breccia nel ghiaccio, eppure zigzagando tra i cani e le slitte arrivo illesa sull’altra sponda. Prima di raggiungere il luogo dell’esibizione, vago su quest’enorme isola che è tutta parco. Mi sembra sovrannaturale per vari motivi: non c’è quasi nessuno, sono a divertirsi tra i ghiacci.
Il bosco di conifere imbiancate è tutto per me. Si spengono i rumori cittadini e si sente solo la neve compatta scricchiolare sotto il mio peso. Harbin è una delle città più inquinate della Cina e le polveri sottili cristallizzate dal gelo avvolgono l’aria comeuna palla di vetro nella quale cadono fiocchi fittizi. I palazzotti comunisti dall’altro lato sono solo silhouette squadrate illuminate dai raggi obliqui dell’inverno. Di qua, inoltre, sembra la Russia: furono i nostri cugini slavi a invadere questa città, che è cinese solo per metà. Angeli di bronzo volteggiano dinanzi a isbe in legno abbandonate, gelate, solitarie come me. In questo mondo d’ovatta, sorge persino il “Teatro d’oro russo”, scritto in caratteri cinesi e alfabeto cirillico.
Il centro città, crogiolo di est e ovest
Non solo sull’Isola del Sole, ma in tutta la città è palpabile l’influenza dello Zar. Lungo via Zhongyang ci sono schiaccianoci in legno, negozi di cioccolata, matrioske, statue di poeti dai tratti caucaisici. Si alternano a negozi di gadget di plastica, bettole che servono noodles, facce mongole che mi fermano per fare quattro chiacchiere. Sono in Cina o in qualche cittadina della Siberia russa?
In via Toulong sorge la basilica di Santa Sofia in mattoni rossi e con i cipollotti sovrastati dalle croci ortodosse. Potrei essere lungo il Volga, se non fosse che tutt’intorno luccicano i centri commerciali cinesi e dagli altoparlanti fuoriescono instancabili voci asciutte e brevi come mitragliatrici, tipiche del cinese, anziché le vocali morbide e le sequenze di fricative dei russi.
Dentro la basilica di Santa Sofia non vi è nulla che ricordi una chiesa a parte un osceno dipinto dell’Ultima Cena illuminato da led verdi su una parete dall’intonaco scrostato. Sotto lo sguardo strabico di Gesù che spezza il pane c’è una mostra sulla storia urbana della città.
Oltre ai russi, dalla fine del XIX secolo a Harbin c’è anche una comunità di ebrei, con tanto di cimitero e di sinagoga, tenuta molto meglio della basilica ortodossa. È ancora funzionante e passeggio tra i suoi corridoi studiando la storia degli ebrei di qui, arrivati insieme ai russi.
In questo periodo tutte le vie principali hanno sculture in ghiaccio: delfini dai corpi intrecciati, scritte in caratteri latini, stupendi cigni che accompagnano la statua bronzea di una violinista russa. Sono felice di essere arrivata fin quassù e aver visto l’intreccio di linee slave, cinesi ed ebree, cristallizzate in mondo di freddo. Per riscaldarmi ceno con una ciotola di shuijiao, i ravioli cinesi in brodo tipici del Dongbei, il Nord-est, come chiamano il loro territorio i cinesi di qui, alti, dal viso tondo di luna piena, dalle lunghe ossa forti. Sono considerati i più belli del Paese.
“Ti faccio 5 kuai di sconto”, mi dice il tassista che mi riporta in ostello, dopo aver chiacchierato della mia vita in Cina.
“Perché?”
“Perché il tuo frutto preferito è il mango, mi hai detto. Qui al Nord non ne trovi, ma quando ripartirai per il Sud- est asiatico, mangiane uno anche per me. È anche il mio frutto preferito.”
Il gelo dei -26 gradi si scioglie per un attimo, il fresco sapore della frutta tropicale si fa strada nel mio palato. Rientro in ostello godendomi per l’ultima volta le temperature frigide, secche, quell’aria di ovatta in una boule de niege creata dall’inquinamento e dal ghiaccio. Mi ricordo che ho pensato: “Domani tutto questo sarà solo un sogno, quando mi crogiolerò al caldo dei tropici dopo aver attraversato tutta la Cina in treno.” Prima di riaprire gli occhi e tornare al presente, vedo una palla di neve e dentro schiaccianoci e cigni di ghiaccio, un angelo di bronzo, me sulla superficie del fiume, lanterne rosse, templi buddisti e chiese ortodosse.
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Che luogo magnifico! Grazie ❤️
Molto interessante ☺️