La newsletter di questa settimana arriva con un po’ di ritardo, un po’ a caso dovrei dire. L’opposto di tutto ciò che raccomandano i guru del contenuto online: “pubblica con regolarità”. Ma tant’è. Vivo in modo imprevedibile e di questi tempi le mie storie vi arriveranno in modo imprevedibile.
Non so che giorno sia: sono assorbita dalle bellezze e dalle bruttezze dell’Asia e persa in una sorta di disorientamento mentale. Chi sono, cosa devo fare, cosa farò, sono solo pensieri lontani che ogni tanto sfiorano il mio intelletto prima di evaporare.
Ciao, sono Alessandra. Viaggio a tempo pieno e scrivo di viaggi lenti. Iscriviti gratuitamente per goderti i miei post da leggere con calma, prendendosi del tempo per se stessi in questo mondo frenetico.
(P.s. questo articolo è stato pubblicato dal telefono, se non è ben formattato perdonatemi!)
Mi sveglio, faccio colazione, scrivo dalla stazione dei bus, leggo nelle marshrutke schiacciata da grosse signore sudate che mi tempestano di domande. Di dove sei? Sei una studentessa, vero? (No, ma una donna che viaggia senza un marito deve esserlo). Hai figli? Cosa studi? Sei stata a Dubai? E in India?
L’ultimo articolo l’ho steso durante un ben più tranquillo viaggio in treno da Almaty a Tashkent, nell’est degli “Stan”. Ora sono sul lato opposto della regione e faccio il viaggio inverso: questa volta il treno va da Nukus, in Uzbekistan, ad Aktau, sulla costa caspica del Kazakhstan, attraverso la regione autonoma del Karakalpakstan, la terra dei cappelli neri.
È semplicissimo perdere la cognizione del tempo in questa confusione di nomi esotici, rincorrendo una storia che è fatta di tribù, clan, invasori di etnie diverse che si susseguono ogni volta facendo piazza pulita della civiltà precedente. Più studio la storia dell’Asia Centrale e meno la capisco, più girovago alla ricerca di antichi mausolei e disastri sovietici e più dimentico me stessa. Che giorno è?
Sono ore, molte ore, che donne dai vestiti a fiori e un foulard colorato sui capelli percorrono il corridoio del vagone elencando ad altissima voce i prodotti che vendono. Alessia è nervosa perché vorrebbe dormire, io ci ho rinunciato, mi sono fatta due tazze di caffè, ho comprato un gelato da una delle venditrici e cambiato i som uzbeki in tenge kazaki illegalmente, con la grossa signora seduta sulla mia cuccetta a contare le banconote.
Come dicevo la scorsa volta,1 quest’estate mi sono concessa il lusso di lasciare il PC a casa e di viaggiare per 5 settimane, abbandonandomi a quello che succederà.
Sono persa in una bolla atemporale in cui esiste solo il mio presente e la complessa storia degli innumerevoli popoli che hanno attraversato queste steppe. Nonché le grida da bazaar delle venditrici karakalpake.
Stamattina, mentre aspettavo la mia colazione a base di lagman (noodles con carne e verdure), ho letto l’articolo Non ho tempo 2di
Gianfagna e ho iniziato a riflettere sul mio tempo in questo viaggio. Ne ho in abbondanza. Ventiquattro lentissime ore al giorno tutte per me. Oggi, in particolare, 27 da passare in treno. Sì, in questo caso il giorno diventa di 27 ore.È bello avere tempo vuoto: per esempio, ho attraversato l’intero Paese solo per vedere il museo delle arti del Karakalpakstan o Museo Savitsky di cui vi ho parlato qui3. Era un mercoledì mattina e io non dovevo fare assolutamente niente, se non godermi l’arte del deserto. Così mi sono seduta su ogni panca al centro delle sale per ammirare le tele, i colori, le foto dell’archeologo sullo sfondo delle rovine di Samarcanda prima che venissero ricostruite da zero. Ho avuto il privilegio di assaporare i lavori di artisti fuggiti in un angolo remoto del mondo, salvati dallo zelo di questo disegnatore e appassionato collezionista venuto qui dall’Europa Sovietica.
Sono consapevole che questi ragionamenti possano sembrare chiacchiere di una privilegiata e a volte i sensi di colpa si insinuano tra i pensieri. Eppure la verità è che sono scesa a compromessi con me stessa: lavorare di più in primavera - sabato compreso - per avere l’estate libera per viaggiare con la mia amica.
Da anni rinuncio a uno stipendio stabile ogni mese per avere libertà di movimento e di orario. Mi sarebbe piaciuto essere un esploratore del passato con una cospicua eredità, ma la realtà è ben diversa. E va bene così.
Mi sono rivista nelle parole di Ilaria: quanto tempo si ha in più in viaggio, nonostante le avventure che riempiono le giornate! Non devo occuparmi di fare la spesa o le pulizie, a parte il bucato. Queste zone sono così calde e polverose che non facciamo altro che lavarci i vestiti. Zaino e scarpe sono in condizioni indecenti.
Le più grandi preoccupazioni - concedetemi questo lusso - sono cercare gli alloggi e i mezzi di trasporto, nonché rispondere alle tartassanti domande che i centrasiatici mi pongono in russo. Ripeto “Italya” e “Niet muzh” (non ho un marito) in media 40 volte al giorno.
Così ho tutto il tempo per studiare la storia e la società dei popoli che vivono qui e di prendere appunti - su carta, da brava esploratrice del passato mancata. È una sensazione di libertà che dovremmo provare almeno una volta all’anno, per staccare davvero, per imparare a vivere nel presente con come il solito cliché dell’hic et nunc, ma come possibilità reale. All’inizio del viaggio si è ancorati al presente, si ricorda, si rimugina; poi piano piano, le cose da fare, le persone, le preoccupazioni diventano bolle di sapone portate via dal vento e tutto quello che rimane è la trasognata sensazione che non esista null’altro se non ciò che si vede e si sente in questo preciso momento.
L’ideale, per me, sarebbe imparare a portare questa sensazione anche nella frenesia quotidiana, ma penso che serva una grande disciplina quasi buddhista che al momento non possiedo. Datemi un computer e ritornerò a perdermi tra storie da scrivere, file da inviare e videochiamate, interrotte dalla corsa al supermercato, dalle faccende e dalle relazioni interpersonali che non siano quelle con i tassisti impiccioni.
L’unica persona reale in questo momento è Alessia. Il primo giorno abbiamo fatto un gossip spietato nei vari aerei e sugli altri mezzi di trasporto, poi ci siamo scambiate i nostri piani per il futuro. Ora tutto è evaporato nel nulla e le nostre conversazioni vertono su questioni tipo “I samanidi sono venuti prima degli shaybanidi?” Non esiste altro. La nostra amicizia non ha bisogno di intrattenimento costante. Passiamo ore in silenzio ognuna immersa nel proprio studio e nella propria scrittura, scambiandoci impressioni di tanto in tanto. Così che la presenza dell’altra non diventa invadenza nonostante la simbiosi di cinque settimane.
Insomma, il tempo personale non viene leso, e questo lievita, si arricchisce, diventa più gustoso.
È come se le giornate non passassero in modo orizzontale, come fanno di solito, bensì acquisissero una terza dimensione e si espandessero.
Grazie per la bella citazione e il bel racconto! Secondo me riuscirai a portare queste dinamiche lente anche nella vita lavorativa!
È difficile fare così nella vita quotidiana, e credo che sia un processo lento 😁 però un passetto alla volta, come sto facendo io, e saremo sempre più vicini alla meta.
Grazie x il racconto, mi sono immedesimata e mi ha rilassato un sacco leggerlo 🥰