Fichi strangolatori e palme che decapitano, Cambogia
Siem Reap, Angkor Watt, Battambang e dintorni
I bus notturni con cuccetta sono una delle peculiarità dell’Asia. Sono molto più comodi dei nostri Flixbus dai sedili striminziti, ma con tutta probabilità non sono altrettanto sicuri. In ogni caso, la sicurezza in Asia ha un valore tutto suo ed è per questo che si può viaggiare per 12 ore standosene sdraiati.
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In Cambogia, quel night bus da Sihanoukville a Siem Reap era riservato solo agli stranieri – chissà perché – era comodissimo e non c’era la minima traccia di sporco. Non ho mai dormito così bene su un autobus, sdraiata su una cuccetta a una piazza e mezza accanto alla mia amica. Mancava il bagno, però, e abbiamo fatto una sola tappa in dodici ore in una sorta di autogrill con quattro banchetti che vendevano i soliti cibi confezionati asiatici, frittelle e interi caschi di banane a un dollaro l’uno.
Il virus malefico stava lasciando il mio corpo, ma ora era il turno di Alessia a essere pallida e debilitata. Tuttavia, la mattina dopo siamo arrivate a Siem Reap senza disagi troppo grandi grazie al comodo night bus.
Meglio di quella volta in cui io e F. giravamo per la Cina nel 2013, entrambi senza internet. Avevamo deciso di andare di stazione in stazione per quel vasto Paese e prendere il primo treno disponibile per qualsiasi meta. A Shanghai eravamo rimasti bloccati perché i treni erano tutti pieni per i tre giorni seguenti (a me sembrava impossibile che la seconda città più importante del Paese, nonché la più grande, non avesse una via d’uscita, ma se ho imparato una cosa in Cina è quella di non chiedermi mai “perché”). Dopo essere stati raccattati, tristi e sconsolati, dai gradini della stazione, da una vecchietta ed essere condotti in un bell’hotel a un prezzo onesto, abbiamo infine trovato un night bus per Luoyang, a più 1000 chilometri da lì, per il giorno dopo.
Entrando nel bus ci si doveva togliere le scarpe e infilare dei sacchetti di plastica ai piedi. All’interno tre – tre! – file di cuccette a castello ospitavano svariati viaggiatori, in barba alla sicurezza. Il lettino, duro e scomodo, era corto persino per una persona come me che non raggiunge il metro e sessantacinque.
L’aria condizionata era stata tenuta sui 15/16 gradi per tutto il tempo e i tre autisti non avevano mai smesso di accendersi una sigaretta dopo l’altra. Diciotto ore dopo eravamo a Luoyang, una delle antiche capitali della Cina, senza più polmoni, con mal di testa e cervicale lancinanti e il corpo spiegazzato. In confronto, il bus cambogiano era una camera d’hotel di lusso.
Siem Reap, nel nord della Cambogia, è una piccola cittadina di palme e caffè alla francese zeppa di turisti che vanno a visitare il complesso di Angkor. È davvero, come si dice e come si immagina, uno dei luoghi più suggestivi della Terra. Il problema, è tutto il resto: all’uscita dal nostro Banana Hotel, con un delizioso cortile interno sul quale si affacciavano le camere di legno tra le palme, si veniva aggrediti da una folla di guidatori di tuk-tuk che facevano a gara a chi riusciva a portarti ad Angkor Watt. Lì, dopo una fila estenuante sotto il sole, si comprava il biglietto (62 dollari per quello da tre giorni, che secondo me è il tempo minimo da dedicare al parco) e ci si metteva alla ricerca di un mezzo di trasporto per visitare quest’enorme città con un’estensione di circa 400 chilometri quadrati.
Abbiamo optato per un altro tuk-tuk, perché non ci andava di guidare un motorino o di pedalare con più di quaranta gradi. Il servizio costava 15 dollari al giorno, escluse le bibite che dovevamo offrire di tanto in tanto al guidatore. Piuttosto che perdere tempo uscendo dal largo circuito di visite e tornare in città, conveniva consumare i pasti nei ristoranti del parco dove ci conduceva l’autista senza porci domande – a prezzi maggiorati, naturalmente.
Insomma, una gita ad Angkor Watt non è per niente economica. Ne vale la pena, certo, però non ho apprezzato il fatto che solo i templi principali fossero ben tenuti mentre gli altri erano pericolanti, se non addirittura mezzo distrutti. Da nessuna parte erano appesi un cartello o una targhetta con una spiegazione, un riferimento o anche solo il nome del tempio per poter approfondire su Google. Come al solito, ciò che si vede in foto è solo una minima parte. Nonostante l’incuria, Angkor Watt non perde il suo fascino. Templi diroccati con i volti degli dei semi coperti dai fichi strangolatori, terra rossa del Sud-Est Asiatico, vegetazione tropicale che si aggroviglia con la maestria dell’uomo in un’unica cosa, la fantasia di un’epoca scomparsa da secoli. A dire il vero, ne so così poco di quella mitica civiltà che è difficile raffigurarmi come fosse la vita ad Angkor, capitale dell’Impero Khmer per sei secoli nonché una delle città più grandi del mondo nel suo periodo di splendore.
Certo, quei Khmer lì erano molto diversi da quelli più recenti: oggi è l’etnia maggioritaria della Cambogia, un popolo devastato dalle vicende degli anni Settanta. La malinconia è palpabile, specie tra le patetiche orchestrine di ciechi e mutilati che raggranellano dollari davanti ai siti turistici. Sono vittime delle mine della guerra in Indocina o, ancor peggio, vittime dei Khmer Rossi, i sadici guerrieri di Pol Pot che hanno ucciso e traumatizzato un popolo intero.
Se sui templi di Angkor, tra i miti narrati, spiccano le incisioni delle danzatrici celesti, i Khmer Rossi tagliavano le gambe, alle ballerine; se Angkor Watt fu il polo religioso dei sovrani Khmer e ancor oggi si trovano monaci con il saio arancio, il regime di Pol Pot sterminò tutto il clero del Paese, tranne i quattro monaci della madre del dittatore.
Tutti gli intellettuali e i medici furono massacrati, tranne quelli che riuscirono a fuggire. Anzi, anche tra quest’ultimi ci furono stragi, quando vennero richiamati in Patria con l’inganno e la scusa del dover ricostruire il paese; i pescatori furono trasformati in contadini, abbandonando la prima fonte di sostentamento: tra il mare, l’immenso Mekong e il lago Tonle Sap, la popolazione cambogiana dipende dall’acqua, specie quella dolce, e da chi ci lavora.
Ancora oggi ricordo le storie su chi veniva decapitato dai Khmer Rouge con la corteccia delle palme e non dimenticherò mai la Killing Cave di Phnom Sampeau a 11 chilometri da Battambang. In cima alla collina, della statue di plastica raffigurano donne, uomini e bambini torturati dai militanti, subito dietro a essi si scorge la faglia nella roccia nella quale venivano spinte le vittime per farle schiantare. Oggi si possono scendere dei gradini intagliati nella pietra e scoprire le ossa e i teschi, in file ordinate, di chi vi morì.
Si lascia il memoriale con un sapore amaro in bocca e si torna a Battambang, la seconda città del paese, davvero brutta. Non c’è molto da vedere se non il mercato, dove è possibile acquistare tarantole e cavallette fritte, e il trenino di bambù che gira tra le risaie per la gioia dei turisti. C’è anche l’ospedale di Emergency.
Ci stavo rimettendo la pelle anche io, a Battambang, il giorno in cui sono andata alla Killing Cave. Ero sul tuk-tuk con il mio guidatore di fiducia, un bel giovanotto – cosa molto, molto rara in Cambogia – e abbiamo subito stretto amicizia. Chiacchieravamo spensierati quando una macchina dalla corsia opposta ha virato verso di noi a velocità sostenuta. Con dei riflessi invidiabili, il mio guidatore ha scartato da un lato all’ultimo secondo e siamo rimasti lì, immobili a fissarci per lunghi minuti. Alla fine è tornato in sé, dicendomi: “He was sleeping”, l’autista dormiva. Troppe emozioni, in Cambogia, e non sempre positive.
Da Battambang, il confine con la Thailandia non è lontano. Alessia era già partita dopo la visita ad Angkor Watt; così, in seguito a questo avvenimento, mi sono imbarcata su un autobus verso la capitale thailandese, seduta accanto a una signora che sgranocchiava cavallette in salsa.
Angkor Watt mi è piaciuto molto, anche nei dintorni ci sono tante rovine. Certo è che sta aria condizionata a 16 gradi non si può sentire!