Scrivo queste parole su un quaderno verdeacqua comprato in una libreria di una stazione. Ha quasi 200 pagine bianche che ho deciso di riempire a mano con una penna blu. Solo in seguito detterò tutto al computer per una seconda stesura. Scrivo a mano per non stare sempre davanti a uno schermo e anche per sentirmi un po' come un viaggiatore del passato che inviava missive in patria. Non voglio scrivere una guida turistica o un blog di viaggio, “cinque cose da vedere a…". Sono utili ma dopo tanti anni internet ne è saturo; e poi voglio intingere la penna nei miei ricordi e lasciare che l'inchiostro delle memorie dei sogni rimanga sulla carta. Tempo fa, durante un inverno particolarmente freddo, continuavo a sognare di prendere un aereo per la Thailandia e di andare a finire il mio romanzo in una casetta sulla spiaggia, ma era il tempo del covid.
Ora, un paio di anni dopo, ho preso una casetta con un giardino pieno di fiori, gatti e tartarughe a 200 metri dal Mar Mediterraneo e posso scrivere sul patio la sera al fresco, dopo che il muezzin ha cantato l'ultimo richiamo alla preghiera.
No, non sono andata in Thailandia. Non torno nell’Asia Orientale da prima del covid. L'Asia, quel mondo controverso di sogni e di cemento, di natura intensa e umanità frenetica e pigra. Ci sono stata per la prima volta nel 2013, ma la sognavo già da prima. Avevo letto così tanti libri di viaggio, studiato la cultura cinese per anni, divorato tutti i racconti di Tiziano Terzani che non facevo altro che sognarla. Sognavo un’Asia antica che non esiste più, se non in reconditi angoli celati alla massa del turismo.
Oggi voglio sguazzare nella memoria dei sogni. Dai racconti mi immaginavo il Laos come una terra rossa, ferrosa, piena di macchie di verde scuro nelle quali si nascondeva chissà quale fauna. Fiumi di bronzo e templi d’oro, gente schiva, luoghi sconosciuti. In fondo chi pensa al Laos? Si parla tanto di Cina, Giappone, India, Bali... ma il Laos, grazie al cielo, non va di moda. Prima di andarci nel 2017 non ne sapevo granché. Ho solo preso un aereo da Hong Kong per la Malesia, trascorso una notte nell'aeroporto di Kuala Lumpur e poi mi sono imbarcata, giovane e sola, per quel mondo sconosciuto. Il Sud-Est asiatico era il regalo da parte di me stessa per i miei 26 anni, festeggiati nella notte di Shanghai. Ricordo in maniera vivida il momento in cui il velivolo si è avvicinato a Luang Prabang e lo stupore quando sono uscita dall'aeroporto: era proprio come l'avevo sognato. Terra rossa e verde, verde, verde ovunque, una vegetazione fittissima. Due fiumi di bronzo incorniciano la città dei mille templi, strade sterrate, mercati notturni, tutto circondato da monti ricoperti di foreste che si estendono all'infinito. Si vedono benissimo dal monte Phou Si, il ‘monte sacro’ di Luang Prabang sul quale la folla di locali e turisti si ammassa al tramonto per vedere i raggi che illuminano d'oro le vette e i fiumi per pochi minuti. A queste latitudini il sole scende troppo velocemente. Chi vuole può acquistare delle gabbiette con dei miseri uccellini da rilasciare verso l’orizzonte infuocato. Poco dopo è già l'ora del Night Market, con le zuppe, i noodles e il liquore imbottigliato assieme ai cobra e alle tarantole.
Chissà com’è oggi il Laos: all'epoca si andava ad esplorare le grotte buddiste in motorino solcando sentieri terrosi con la polvere negli occhi e nella bocca, sullo sfondo panorami da film: natura e nient'altro, i colori caldissimi del bronzo e del verde scuro, del fango sugli elefanti nei fiumi. E poi l'azzurro delle cascate di Kuang Si, delle piscine naturali, nelle quali tuffarsi per ripulirsi dalla polvere del viaggio.
Avevo un sogno, un altro (quando si tratta di viaggi ne ho molti): volevo navigare sul Mekong. Il mitico Mekong, che nasce sull'altopiano tibetano e scende tra noi mortali perdendosi tra i monti dello Yunnan e del Laos e poi attraversa la penisola, divide il regno di un milione di elefanti dalla Thailandia, scorre tra le 4000 isole, giunge in Cambogia e poi sfocia nel Mar Cinese al confine col Vietnam dando intanto da mangiare ai milioni di persone che popolano le sue sponde.
Da Luang Prabang ho fatto un lunghissimo e tortuoso viaggio in autobus fino alla capitale Ventiane insieme a una coppia di pensionati singaporiani, disorientati in un mondo dove si può viaggiare facilmente grazie a internet. Dopo qualche giorno ho preso un aereo scassato della Lao Airlines per Pakse, nel Sud del paese. Mi domando ancora dove abbia trovato il coraggio di viaggiare su quel trabiccolo.
Il terminal dei voli nazionali è una sorta di container con due gates, delle sedie di plastica nell'unica sala d'aspetto e uno stand che vende caffè, cornetti imbustati che sanno di carta e qualche altra porcheria. Sembrava che fossimo in attesa della visita medica, invece stavo per volare verso il centro della penisola indocinese. Una viaggiatrice d’altri tempi su un aereo di linea e un telefono cellulare.
Dopo un’oretta ero già a Pakse, capoluogo del sud del Laos, un’angosciante città con palazzi di cemento dalla quale non vedevo l’ora di fuggire. L’unica cosa positiva del luogo era stata farsi invitare dal passeggero accanto per andare a gustare una colazione alla vietnamita che annovero ancora fra le più buone della mia vita: caffè lao con latte condensato, tè, un brodino con due uova all’occhio di bue e due polpette di carne da condire e mescolare, una baguette fresca. Dal porticciolo della triste Pakse si scorge il profilo dei monti simili a una donna coricata oltre il fiume.
Mi ci sono fatta condurre dal mio nuovo amico, al quale avevo confidato il mio progetto di discesa del Mekong. Purtroppo non esistevano passaggi turistici, ma insistendo un po’ con il gestore di un bar vicino al porticciolo ho trovato un’imbarcazione privata e un barcaiolo che, per 80 dollari americani – una fortuna lì – mi ha trasportata fino alla città storica di Champasak. L’espressione sorpresa del barista mi ha fatto pensare che forse avevo speso un intero stipendio mensile laotiano quel giorno, ma era un mio sogno e i sogni vanno realizzati.
Abbiamo iniziato la discesa. Ero sul Mekong, che fino ad allora avevo solo visto scorrere dalle terrazze lignee di Luang Prabang mentre mangiavo tom yum. Ora ero sulle sue acque bronzee. Mi accompagnerà ancora a lungo, il mio caro Mekong, come mi ha accompagnata nei sogni di una vita.
Il sole splendeva sulla lussureggiante vegetazione dei tropici dalla quale provenivano grida di scimmie e di altri animali che non potevo immaginare. Ero l’unica straniera e non si vedevano altre imbarcazioni se non quelle, in lontananza, dei pescatori. Era impossibile capire se attorno vi fossero centri umani oltre alla cittadina di Pakse ormai lontana alle mie spalle. Forse no, forse eravamo noi soli con la natura, che ci accompagnava fino alla prossima meta. Nessun turista, nessun negozio scintillante a vendere souvenir di plastica, nessun fast food. Nulla di nulla, eppure il tutto.
Il barcaiolo ha attraccato su un banco di fango attraversato da un asse di legno. Semi nascosta nella foresta si intravvedeva una scaletta. Mi ha fatto un cenno come a dire “vai su” e io ho obbedito. D’altronde, non avrei potuto fare altro. In cima sorgeva una bellissima guesthouse con terrazza sul Mekong nel mezzo del villaggio di Champasak, dove ho affittato subito una stanza e noleggiato una bicicletta per dirigermi a Wat Phu. Faceva molto più caldo che tra i monti del nord e sotto il sole cocente di gennaio mi sono diretta verso le rovine dell’antica capitale khmer, antecedente ad Angkor Wat, a quest’ultima collegata da un’antichissima via.
I templi diroccati con le loro ballerine celesti e le buddhità incise sulla pietra si arrampicano nella foresta su quel monte quasi cilindrico che si chiama Lingaparvata, ovvero la montagna del linga, simbolo di virilità, fertilità e di Shiva. Un lingam di pietra è posto sulla cima, ma è inarrivabile. Ho vagato un po’ tra le rovine e ho scovato una grotta sacra dedicata al Buddha – che ha soppiantato l’antico culto induista – e nel quale scorre un torrente sacro. Dei ragazzini raccoglievano l’acqua santa in bottigliette di Sprite e Coca-cola e cercavano di rivenderla. Sono rientrata nella guesthouse attraversando un’unica via polverosa con bellissime ville coloniali e dignitose casette nelle quali scorrazzavano bambini e galline. Sono passati tanti anni eppure, quando devo pensare a un momento felice, penso a quel giorno.
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