La Kirghisia è famosa per le catene montuose e per i laghi alpini, come il lago Song-Kul, incastonato tra i monti del Tian Shan. Tian Shan 天山 in cinese significa “le montagne celesti”.
Le estati in Asia Centrale sanno essere impietosamente calde, specie nelle steppe o nei deserti dell’Uzbekistan e del Turkmenistan. Grazie alla sua altitudine, 900 metri sul livello del mare e alle infinite distese di pioppi e salici che attenuano il calore del cemento, Bishkek, la capitale del Kirghizistan, viene risparmiata dall’afa. Su a Song-Kul, invece, faceva freddissimo. Riprendo i miei appunti di una sera di inizio luglio: alle 21.11 eravamo sotto il piumino. Un piccolo lusso in quella yurta – la tipica tenda dei nomadi dell’Asia Centrale – ad alta quota, 3016 metri per la precisione.
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Oltre il telo sostenuto da rami rossi incrociati con abilità millenaria, tuonava. Lì è tutto pascolo, non un albero o un cespuglio. Le nostre yurte erano le cose più alte e il temporale si scatenava proprio sopra di noi, creando nelle nostre teste pensieri catastrofici di fulmini e tende in fiamme. Via via che il brutto tempo si avvicinava, le voci kirghise e i palleggi dei bambini che avevano accompagnato la fine della giornata erano sostituite dai rombi della tempesta, dai nitriti dei cavalli innervositi e dall’insistente raglio di un asino. Subito dopo, il finimondo. Lo scrosciare della pioggia sui teli, l’acqua che filtravano in sottili rivoli, la stufetta al carbone che spandeva il suo fumo tossico nella tenda, ma senza la quale saremmo andate in ibernazione.
Alessia era accoccolata in uno dei letti – letti veri e propri, che fa un po’ strano vedere in un campo nomadi – e con la penna in mano osservava preoccupata l’acqua che filtrava piano nella tenda. Avevamo solo abiti estivi indossati a strati e una sciarpa al collo. Altri tuoni, sembrava che il cielo si fosse aperto proprio sopra di noi. Il Song-Kul non è ancora stato mangiato dal turismo di massa, nonostante i nomadi affittino posti letto agli avventurieri che giungono fin lì, per combinare il tradizionale lavoro con il bestiame a quello ben più remunerativo dell’ospitare i viaggiatori europei e giapponesi.
Questo lago è uno dei tanti del Kirghizistan; non è il più alto ma è il secondo per ampiezza, dopo l’Issy-kul che copre buona parte del territorio nord-orientale. Il paesaggio mi ricordava il Tibet, con dolci avvallamenti senza altra vegetazione che non fosse l’erba del pascolo da un lato e le acque glauche del lago dall’altro. I ghiacciai chiudevano l’orizzonte cangiando sfumatura a seconda del tempo. Anche i visi mi ricordavano quelli tibetani, così diversi dai kirghisi di città: facce mongole dalla pelle bruciata e le gote rubizze. Uno dei nostri ospiti aveva un paio di occhi verdi che brillavano sullo sfondo affumicato della sua carnagione.
Arrivare fin lì non era stato facile: il Kirghizistan è poco attrezzato per i turisti, le informazioni online sono vaghe e nessuna di noi due è abituata a partecipare ai tour organizzati. Abbiamo la masochistica idea che le mete vadano conquistate, non ci piace che ci vengano servite su un piatto d’argento. Neanche quando sarebbe ben più conveniente viaggiare con una guida.
A Bishkek abbiamo preso la marshrutka numero 513 dalla stazione ovest degli autobus, ovvero la Zapadnyy Avtovokzal, per Kochkor, una cittadina a ovest del lago Issyk-kul. Il prezzo del biglietto è di circa 3 euro.
Da Kochkor non ci sono mezzi di trasporto pubblico per arrivare al Song-Kul, che ogni estate i nomadi raggiungono a cavallo o con vecchie carrette del tempo dell’Unione Sovietica e gli sporadici turisti devono cavarsela con un mezzo privato, una cavalcatura o in alternativa tre giorni di trekking. L’autista del minivan che ci ha condotte fino a Kochkor si è offerto di accompagnarci fino al lago per 13.000 som, circa 140 euro solo andata. Inizialmente, confuse con il cambio, avevamo tolto uno zero all’importo, ma ci siamo accorte dell’errore in tempo, mentre l’autista stava facendo benzina.
“Ci dispiace, abbiamo cambiato idea”, gli abbiamo comunicato non appena è rientrato in macchina. Dopo qualche battuta in un russo sgangherato, ci ha restituito i contanti di malavoglia e con fare nervoso si è infilato una sigaretta in bocca. Appena scese dal suo van, si è avvicinata una donna che, in un inglese perfetto questa volta, ci ha assalite per convincerci a usufruire dei servizi della sua agenzia: andata e ritorno per il Song-Kul a 8900 som, più di 90 euro. Un po’ costoso ma pareva che non ci fossero altre opzioni. Ci siamo allontanate per pensarci e per rinfrancarci con una tappa in bagno e un tè – eravamo in viaggio da più di quattro ore: le marshrutke non si fermano di certo agli autogrill, che d’altronde di solito si limitano a essere un alimentari con una svogliata signora che chiede dieci som e ti allunga due quadratini di carta igienica.
Lì, in quello che sembrava l’unico ristorante della via principale di Kochkor, inaspettatamente abbiamo sentito un: “Tu persona italiana?”
“Sì.”
“Dove andare?”
“A Song-Kul.”
“Ah, peccato. Io andare a Bishkek. Serve aiuto?” e così è iniziata una contrattazione tra Dima – questo il nome del grosso uiguro che ha vissuto per un paio d’anni a Milano – Alessia e un gruppo di voraci tassisti. Si è giunti alla somma di 50.000 som, di cui 35.ooo messi da Dima insieme a due insipide fette di pizza. “Ospitalità kirghisa”, ci ha spiegato con fare teatrale prima di spingerci nella scassata Wolksvagen trentennale che ha vinto l’ingrato premio di condurci al Song-Kul.
Senza le manopole per abbassare i finestrini, le cinture incastrate e la portiera dell’autista che si apriva a ogni curva, l’anziano guidatore conduceva il suo mezzo vintage in silenzio tra le curve del Tian Shan ruotando con tutto il corpo per la mancanza del servosterzo. Ogni tentativo da parte mia di comunicare finiva nel nulla. Non capiva il russo? Non voleva rivolgere la parola a una donna? Era concentrato sulla strada da fare? A un certo punto ho avuto come l’impressione che si stesse per addormentare.
Fortunatamente abbiamo iniziato ad arrampicarci su strade di macadam, sobbalzando a destra e a sinistra su quelli che erano poco più che sentieri. Le montagne rimanevano sempre dolci e verdi di pascolo, un lago blu come un’iride si è schiuso all’improvviso; oltre, le vette rocciose con in cima i ghiacciai. Dentro la macchina si moriva di caldo, ma fuori immaginavo che fosse molto fresco. Arrivando a quota 3400 i ghiacciai sfioravano il ciglio della strada. Era tutto bello e pericoloso, con le strette strade affiancate da massi pericolanti e il veicolo che sobbalzava.
Il terzo passeggero, tirato su in un villaggio a valle mentre faceva l’autostop, continuava a bere la sua “plakhoya vodka”, la vodka scadente. Accettava con filosofia i nostri rifiuti alla sbobba alcolica, ma si è offeso quando abbiamo osato respingere “il pane più buono del mondo”, come specificava urlando e offrendocelo con le dita lerce. Era un sessantenne di Osh in visita per la prima volta al Song-Kul e ogni tanto provava a spiegarmi qualcosa in russo con la voce strascicata dall’alcol. Devo ammettere che le conversazioni non duravano troppo. Le lunghe ore di viaggio erano costellate dai lamenti di Alessia per il caldo e di spezzoni di brevi conversazioni tra i due kirghisi, misti ai miei inutili tentativi di comunicare.
Superato il parco, ci siamo ritrovati su un pascolo che scendeva verso il lago plumbeo sotto un cielo altrettando greve. Sui ghiacciai gravavano i nuvoloni. Tutt’intorno, yurte e cavalli. L’autista faceva lo slalom tra un sentiero e l’altro fino a che non è stato costretto a fermarsi: una delle ruote posteriori era esplosa. Nonostante la sventura, eravamo sollevati per il fatto che fosse successo qui tra le yurte abitate e non giù da qualche parte nei tornanti ghiaiosi e i massi in bilico, senza campo nel cellulare per chiamare aiuto.
Con un crick rotto, che faceva ruotare con un bastone, l’autista cercava con molta fatica di sollevare la macchina. Fuori sferzava un vento gelido che ci colpiva con forza dopo il calore intenso all’interno del veicolo. Indossavamo abiti estivi e tremavamo, mentre una signora tarchiotta, colta l’occasione della nostra sventura, cercava di convincerci a soggiornare da lei, la cena era inclusa nel prezzo. Stavamo cercando di spiegarle che, senza internet e senza campo, non potevamo cancellare la prenotazione nell’altro yurt camp quando un colpo e un’imprecazione kirghisa hanno annunciato che il crick si era spaccato in due e la macchina era crollata. Per lo spavento l’autista era balzato di mezzo metro indietro, ma era rimasto incolume.
Non ne potevamo più, così impalate nel vento che spirava come artigli di ghiaccio e strette nelle nostre inutili camicette; il passeggero di Osh che oscillava su se stesso per la troppa vodka e la nomade che provava a elencarci le meraviglie delle sue yurte giusto in mezzo all’incrocio di aria fredda.
Dopo altri lunghi, gelidi e stancanti minuti, la signora tarchiotta, forse perse le speranze di convincerci a stare da lei, ha tirato fuori un crick in buone condizioni e la ruota è stata sostituita in un attimo. Finalmente. Siamo riusciuti a percorrere gli ultimi dieci chilometri lungo la riva del lago per arrivare al nostro alloggio, dove gli ospiti, impegnati con il bestiame, non avevano idea del nostro arrivo. Grazie, Booking.
In ogni caso, questo campo era più riparato rispetto agli altri e il vento si scontrava con le colline. Il passeggero di Osh è sceso ondeggiando dalla macchina pieno della sua plokhaya vodka e ci ha salutate prima di ripartire con l’autista. Non aveva una meta, non aveva un bagaglio. Saremmo rimaste con diversi interrogativi irrisolti.
Da dietro le yurte è comparsa una ragazza di quindici anni che ci ha accolte in inglese. Ci ha condotte nella nostra yurta e poi in quella “da pranzo”, dove avevano, nel frattempo, imbandito per noi una tavola di frutta fresca, frutta secca, marmellate, biscotti, plov di montone, insalate di pomodori e cipolle e tè.
Mentre scrivevo queste parole il temporale si abbatteva sulla yurta, oltre i tuoni e la pioggia c’era il silenzio assoluto dell’alta montagna. Faceva quasi paura, per chi è abituato ai suoni della città.
La notte in tenda si è rivelata interessante. Il maltempo è durato un bel po’, prima di allontanarsi lento, lasciando una fitta pioggia che si è piano piano calmata, conciliando il sonno. Nella notte, il silenzio è stato squarciato dai nitriti insistenti di un cavallo giusto dietro alla mia testa. Il mio sonno è stato un po’ tormentato, perché non avevo voglia di uscire nel buio e nel freddo per andare in bagno e anche la mattina ho sfiorato l’esplosione della vescica prima di decidermi a uscire dal tepore delle coperte. Fuori l’erba era ancora bagnata e le vette attorno al lago imbiancate di neve fresca.
Intirizzite, abbiamo fatto colazione con frutta e kasha – il porridge sovietico – e poi passeggiato tra il bestiame e lungo il lago. A metà mattinata era infine uscito un sole timido che ci ha dato un po’ di calore e la famiglia che ci ospitava ne ha approfittato per mettere su un festino. Nonostante il campo fosse per metà un business per turisti, eravamo in realtà con una famiglia seminomade che conduceva la propria vita quotidiana. Asìa, 15 anni, durante l’anno studia in città e d’estate vaga tra i membri della famiglia per aiutare questo o quell’altro. I due cugini stanno al campo a supportare la nonna Zoya, una donna possente e ridanciana con il fare di una matriarca. Cavalcava, beveva e dava ordini.
Quando sono arrivati in visita i parenti dalla valle, noi eravamo le uniche turiste. Ci hanno fatto sedere in cerchio con loro per bere il kumis, il latte di cavalla fermentato: è acidulo e sa di legno bruciato. Poi ci hanno invitate nella grande yurta a “bere il tè”, che si è rivelato essere un banchetto con un sacco di cibo, bourbon polacco e arak – la vodka kirghisa. Erano le undici di mattina ed eravamo a quota 3000. Non il massimo per il sistema cardiaco.
Nonostante si professassero musulmani e ringraziassero Allah a ogni sorso, non esitavano a ingollare litri di alcol dopo una breve preghiera. Le donne bevevano quanto gli uomini e a turno toccava fare un discorso in kirghiso e un brindisi. Non avevamo una lingua in comune – a parte un po’ di russo con Zoya – ma ci hanno accolte lo stesso, non come turiste, ma come amiche. La “festa” è contiuata all’esterno, con altra vodka e fette d’anguria, e canti vari accompagnati dal komuz – una sorta di mandolino degli altipiani – e da un microfono di fattura cinese con tanto d’eco. Le due nipoti adolescenti, una delle quali con il capo coperto, non avevano il permesso né di bere né di festeggiare e si alternavano tra il servirci il cibo e qualche tiro di pallavolo.
Si cantava a turno, in una cacofonia stonata che era un bene che fossimo così lontani da qualsiasi centro abitato. Infine, ci è stata dedicata una meravigliosa canzone d’addio con le note che dal komuz rimbalzavano sulle colline, poco prima che arrivasse rombando l’autista sulla sua Volkswagen demodè, accompagnato da un silenzioso nipotino dalla faccia mongola e gli occhi d’ambra. Inutile dire che non sono riuscita a chiedergli che fine avesse fatto il turista di Osh.
Rifacendo la lunga strada all’inverso, siamo tornate a Kochkor. Da lì, inebriate dall’arak e dalla bellezza dell’esperienza appena fatta a 3000 metri di quota con un gruppo di nomadi kirghisi, abbiamo passeggiato tra le vie della città per ammirare i monti innevati nonostante fosse luglio, ben consapevoli che lì dietro si nascondeva un mondo di favola, un mondo di silenzio, di verde e d’acqua, di animali e di persone da un universo remoto.
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Bellissima questa piccola immersione in terra kirghisa. Le disavventure e gli aneddoti più paradossali (tra l'altro li hai raccontati benissimo!) sono ciò che mi fa immedesimare di più nel viaggio, in quel divorare con gli occhi mentre si scuote la testa, pensando a quanto può essere diverso il mondo e a quanto riempie il cuore viaggiare. Grazie ❤️