L'avanguardia nel deserto
Una storia di tenace determinazione al tempo dell'URSS
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È una grigia giornata veneziana, con pioggia incessante e vento freddo che sibila tra le calli. L’aria è pervasa da una strana malinconia, come fosse inizio novembre, ma è fine aprile.
È il tipo di giornata che invita a rifugiarsi tra le coperte con una tazza di tè, magari a guardare un film o a immergersi in un buon libro.
Oppure, si può viaggiare.
Sono seduta al tavolo della cucina, in pigiama, ma sono anche a Nukus, in Uzbekistan, precisamente nella Repubblica autonoma del Karakalpakstan, in una brutta città sovietica incastonata nel deserto salato che si estende intorno al prosciugato lago d’Aral.
A luglio partirò per un grande tour in Asia Centrale, tra deserti, montagne e architetture brutaliste e sto leggendo di tutto in proposito: il potere dei libri di farci viaggiare è ben noto.
Oggi, però, ho scelto di viaggiare attraverso l’arte, attraverso tele e dipinti salvati dalla furia sovietica.
Tra i vari resoconti di viaggio letti in questi mesi sui paesi “Stan”, uno dei migliori è “Sovietistan” di Erika Fatland. La giovane antropologa norvegese trascorre mesi nella regione, soffermandosi sul presente sempre più opprimente e chiuso delle dittature dell'Asia Centrale, un mix tra il lascito sovietico, capi di stato che hanno ereditato la politica dall'URSS e disastri ambientali.
Tra i vari aneddoti della sua cronaca semplice e diretta, ce n'è uno in particolare che mi ha colpito. Non parla né di tragedie sovietiche né di corruzione e dittature, ma di arte, passione e tenacia.
La vicenda del Museo Statale delle Arti del Karakalpakstan di Nukus è un racconto avvincente, plasmato dalla determinazione di Igor Savickij. Nonostante fosse già una tappa nel mio itinerario di viaggio, il caso ha voluto che la scorsa settimana, a quattro minuti a piedi da casa, all'Università di Venezia Ca' Foscari, fosse inaugurata la mostra "Uzbekistan: l’avanguardia nel deserto". Le opere esposte sono concesse proprio da quel museo, così oggi non mi trovo più a Venezia, ma mi sento catapultata a migliaia di chilometri di distanza, al tempo dell'Unione Sovietica grazie a una selezione di dipinti realizzati da artisti lontani nel tempo e nello spazio. Queste opere hanno il potere di trasportarmi in un altro mondo con una forza che nessun aereo potrebbe mai eguagliare.
La storia di Igor Savickij è un affascinante capitolo della narrazione della Fatland. Nato a Kyiv nel 1915, fece il suo primo viaggio a Nukus negli anni '50 con una spedizione archeologica in Corasmia, una terra in cui si incontravano le culture indo-iraniane dell'Asia centro-settentrionale, caratterizzate dalla religione zoroastriana e da un forte interesse per la scienza e la matematica. Fu durante questo viaggio che Savickij si rese conto del rischio imminente di perdere un patrimonio artistico inestimabile a causa delle repressioni staliniste.
Nonostante il pericolo di essere etichettato come "nemico del popolo", Savickij intraprese l'arduo compito di recuperare opere d'arte realizzate da artisti locali e dell'avanguardia sovietica, opere che erano state nascoste dagli autori stessi o dai loro eredi per timore delle persecuzioni. Molti tra questi pittori erano stati, infatti, perseguitati o arrestati. Tuttavia, Savickij perseverò, bussando a ogni porta per rintracciare le opere perdute, trovandone alcune in condizioni deplorevoli, per esempio uno dei quadri era stato utilizzato come tappa-buchi sul tetto di una delle vedove.
Opere di artisti come Volkov, uno dei nomi più importanti dell'avanguardia sovietica, gli furono donate dalla famiglia, che aveva utilizzato le cornici come legna da ardere per scaldarsi.
Pur indebitandosi, Savickij si dedicò interamente a questo progetto, sacrificando la carriera e la vita familiare. Grazie al suo impegno, riuscì a preservare migliaia di opere d'arte che altrimenti sarebbero andate perdute, sfuggendo al realismo socialista imposto dal governo sovietico. Oggi possiamo ammirare capolavori di dadaismo, surrealismo e cubismo grazie al suo straordinario lavoro.
La missione dell’archeologo non si limitò all'Uzbekistan, ma si estese fino a Mosca man mano che le autorità allentavano la loro stretta. Grazie alla minor rigidità dei controlli nella periferica e industriale capitale del Karakalpakstan, l'"oasi artistica" divenne uno dei principali musei dell'Uzbekistan, guadagnandosi il soprannome di "Louvre del deserto".
Così, mentre mi trovo tra le mura secolari della Ca' Foscari, mi sembra di viaggiare in una sala da tè asiatica, di percorrere le antiche rotte delle carovane tra mercanti e cammelli, di immergermi in cortili dove le nonne rotonde nutrono le loro galline e volti dagli occhi a mandorla scrutano un tempo che non esiste più. Queste tele sono un viaggio vero e proprio.
Se ti interessa l’Asia Centrale, ecco cos’altro ho letto finora:
Buonanotte, signor Lenin di Tiziano Terzani ci porta in un viaggio attraverso le Repubbliche sovietiche proprio nel momento della caduta dell’impero. Terzani assiste agli abbattimenti delle statue di Lenin e discute con i membri dei movimenti nazionalisti e islamici. Oltre agli “Stan”, si sposta in quasi tutti i paesi dell’URSS e analizza con occhio da giornalista le cronache e i cambiamenti di quei giorni.
Imperium di Ryszard Kapuscinski esplora le stesse regioni un anno prima, quando l'URSS è ancora in piedi ma in bilico, con un senso imminente di cambiamento nell'aria. Kapuscinski ci racconta dei grandi disastri perpetrati dall'Unione Sovietica, dal prosciugamento del lago d'Aral alle carestie in Ucraina e in Kazakhstan, ripercorrendo la storia dell'impero vissuta in prima persona. Arriva anche nelle regioni più fredde della Siberia su traballanti velivoli per osservare, appunto, i vari angoli dell’Impero.
Colin Thubron non è un giornalista ma uno scrittore. Il suo libro Il cuore perduto dell'Asia, ci porta nei paesi dell'Asia centrale un anno dopo la caduta dell'URSS. Nonostante lo stile un po' pedante, Thubron analizza il disagio e la confusione di quegli stati che ancora devono trovare una forma e una direzione, mangiando occhi di capretto nelle case turkmene e ritrovandosi a feste di circoncisioni in Uzbekistan.
In questi giorni sarà il turno de Il grande gioco di Peter Hopkrik, che non è una cronaca di viaggio né un reportage giornalistico, ma un saggio sulla storia dell’Asia Centrale.
P.s. Si accettano consigli su altri libri!
Opere di forte espressività che premiano il coraggio per salvarle. Il quadro al fondo in particolare mi colpisce; non si vede niente del paesaggio, eppure forme e colori trasmettono un senso di riempimento deciso 🧐